DOSSIER EMERGENZA CARCERI
Pena e rieducazione: ecco due vocaboli il cui accostamento è sancito dalla Costituzione italiana, nel terzo comma dell’articolo 27 che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Esplicito al riguardo è anche l’Ordinamento penitenziario che ordina che nei confronti dei condannati e degli internati sia «attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». A ribadire la stretta relazione tra pena e rieducazione viene oggi anche l’articolo 1 del Regolamento di esecuzione recentemente approvato.
Insomma, la legge è chiara. Chi sta in galera deve essere stimolato a reintrodursi nella “vita civile”. Ma tra questi due concetti, pena carceraria e rieducazione, si frappone una realtà che li rende concretamente antitetici, lontani e incompatibili. Una realtà fatta di istituti penitenziari sovraffollati, di organico carente, di fondi economici esigui: tutti fattori che impediscono agli “ospiti” delle patrie galere di seguire un proprio percorso rieducativo attraverso quelle attività culturali e ricreative, formative e lavorative che vengono compendiate nell’espressione “trattamento individualizzato”.
Lezione in aula nel carcere di Regina Coeli Educatori e volontari
Sono sempre le norme, le leggi, ad individuare negli educatori gli attori principali del processo di sostegno umano, culturale e professionale ai detenuti. Gli educatori si devono occupare, secondo l’Ordinamento penitenziario, del «trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione» (art. 82). Essi sono parte integrante dell’istituzione penitenziaria e costituiscono le équipe di osservazione che definiscono, valutano e orientano il percorso trattamentale del detenuto. È innanzitutto osservando i numeri che ci si rende conto dell’enorme distanza che separa le normative dalla realtà. La carenza di organico è a dir poco gravissima: per più di 50mila persone detenute nelle carceri italiane si contano in tutto 608 educatori. E se si scende nel particolare, i numeri non cessano di essere eloquenti. Nel carcere milanese di Opera – dove si scontano detenzioni lunghe, quindi un luogo in cui il trattamento dovrebbe essere curato particolarmente – tra gli oltre mille detenuti si trovano a lavorare tre educatori e due assistenti sociali; sempre a Milano, a San Vittore, ci sono 1.100 agenti di polizia penitenziaria e 1.500 detenuti, ma solo sei educatori. Anche se negli istituti più piccoli la situazione tende a migliorare leggermente, i casi in cui il rapporto fra educatori e popolazione detenuta scende al di sotto della media di un operatore ogni 50-60 persone sono estremamente rari.
Se accanto a questi dati si considerano i bilanci finanziari dei singoli penitenziari, ecco che si aggiunge un tassello significativo al puzzle. «All’attività di trattamento» spiega Stefano Anastasia, illustrandoci i risultati di un questionario che l’associazione “Antigone” ha realizzato presso una sessantina di carceri italiane, «mediamente ogni istituto penitenziario destina meno dell’1 per cento delle risorse complessive a sua disposizione. Con questi soldi si organizzano le attività scolastiche, di concerto con il Ministero della Pubblica istruzione, e altre pochissime cose. Gran parte del budget del carcere è finalizzato alle spese per il personale e alla gestione dell’ordinaria amministrazione».
Il volontariato che svolge la sua opera all’interno delle mura carcerarie, interviene, come quasi sempre accade, a limitare, per quanto possibile e lecito, le carenze dell’apparato istituzionale. Gli articoli 17 e 78 dell’Ordinamento penitenziario garantiscono la possibilità d’ingresso nelle prigioni ai volontari, a tutti coloro cioè che abbiano «concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti» e che possano «utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera». Attualmente i volontari che prestano assistenza e sostegno individuale ai detenuti sono generalmente di matrice cattolica (o comunque confessionale: sta nascendo una significativa presenza musulmana), mentre le associazioni del volontariato e del “terzo settore” impegnate nella realizzazione di attività di tipo formativo, ricreativo e culturale sono in prevalenza laiche. Gran parte delle attività che vengono svolte effettivamente dentro gli istituti sono realizzate grazie al lavoro del volontariato esterno che in certi casi ha la possibilità di utilizzare finanziamenti provenienti da altri cespiti, per esempio i fondi messi a disposizione dalle Regioni, o dalla Comunità europea. «Il problema del volontariato in carcere» dice Anastasia «è che la sua presenza è molto disomogenea sul territorio nazionale. Ci sono realtà in cui c’è un volontario ogni dieci detenuti (è il caso della Toscana e del Veneto) ed altre in cui c’è un volontario per istituto, o non ce n’è nemmeno uno (come a Brindisi). In generale nel Mezzogiorno ce ne sono pochissimi». In effetti la presenza del volontariato carcerario è legata all’iniziativa dei singoli direttori e anche alla ricchezza del tessuto associativo dei singoli territori. «Comunque» conclude Anastasia «stando ad alcuni dati, le organizzazioni no profit che lavorano nel mondo carcerario sono 473 e i volontari 16.724 [compresi quelli che operano fuori dalle prigioni, presso i Centri di servizio sociale per adulti, cfr. box a p. 77]: numeri che, sebbene non piccoli, vengono resi, a livello nazionale, meno significativi dalla disomogenea diffusione sul territorio di cui s’è parlato».
Io speriamo che me la cavo
La rieducazione: ci sono solo 608 educatori per oltre cinquantamila detenuti. E in dieci anni la percentuale di quelli che riescono a svolgere o a imparare un lavoro durante il periodo di detenzione è scesa dal 43 al 23 per cento
La rieducazione: ci sono solo 608 educatori per oltre cinquantamila detenuti. E in dieci anni la percentuale di quelli che riescono a svolgere o a imparare un lavoro durante il periodo di detenzione è scesa dal 43 al 23 per cento
di Paolo Mattei
Pena e rieducazione: ecco due vocaboli il cui accostamento è sancito dalla Costituzione italiana, nel terzo comma dell’articolo 27 che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Esplicito al riguardo è anche l’Ordinamento penitenziario che ordina che nei confronti dei condannati e degli internati sia «attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi». A ribadire la stretta relazione tra pena e rieducazione viene oggi anche l’articolo 1 del Regolamento di esecuzione recentemente approvato.
Insomma, la legge è chiara. Chi sta in galera deve essere stimolato a reintrodursi nella “vita civile”. Ma tra questi due concetti, pena carceraria e rieducazione, si frappone una realtà che li rende concretamente antitetici, lontani e incompatibili. Una realtà fatta di istituti penitenziari sovraffollati, di organico carente, di fondi economici esigui: tutti fattori che impediscono agli “ospiti” delle patrie galere di seguire un proprio percorso rieducativo attraverso quelle attività culturali e ricreative, formative e lavorative che vengono compendiate nell’espressione “trattamento individualizzato”.
Lezione in aula nel carcere di Regina Coeli Educatori e volontari
Sono sempre le norme, le leggi, ad individuare negli educatori gli attori principali del processo di sostegno umano, culturale e professionale ai detenuti. Gli educatori si devono occupare, secondo l’Ordinamento penitenziario, del «trattamento rieducativo individuale o di gruppo, coordinando la loro azione con quella di tutto il personale addetto alle attività concernenti la rieducazione» (art. 82). Essi sono parte integrante dell’istituzione penitenziaria e costituiscono le équipe di osservazione che definiscono, valutano e orientano il percorso trattamentale del detenuto. È innanzitutto osservando i numeri che ci si rende conto dell’enorme distanza che separa le normative dalla realtà. La carenza di organico è a dir poco gravissima: per più di 50mila persone detenute nelle carceri italiane si contano in tutto 608 educatori. E se si scende nel particolare, i numeri non cessano di essere eloquenti. Nel carcere milanese di Opera – dove si scontano detenzioni lunghe, quindi un luogo in cui il trattamento dovrebbe essere curato particolarmente – tra gli oltre mille detenuti si trovano a lavorare tre educatori e due assistenti sociali; sempre a Milano, a San Vittore, ci sono 1.100 agenti di polizia penitenziaria e 1.500 detenuti, ma solo sei educatori. Anche se negli istituti più piccoli la situazione tende a migliorare leggermente, i casi in cui il rapporto fra educatori e popolazione detenuta scende al di sotto della media di un operatore ogni 50-60 persone sono estremamente rari.
Se accanto a questi dati si considerano i bilanci finanziari dei singoli penitenziari, ecco che si aggiunge un tassello significativo al puzzle. «All’attività di trattamento» spiega Stefano Anastasia, illustrandoci i risultati di un questionario che l’associazione “Antigone” ha realizzato presso una sessantina di carceri italiane, «mediamente ogni istituto penitenziario destina meno dell’1 per cento delle risorse complessive a sua disposizione. Con questi soldi si organizzano le attività scolastiche, di concerto con il Ministero della Pubblica istruzione, e altre pochissime cose. Gran parte del budget del carcere è finalizzato alle spese per il personale e alla gestione dell’ordinaria amministrazione».
Il volontariato che svolge la sua opera all’interno delle mura carcerarie, interviene, come quasi sempre accade, a limitare, per quanto possibile e lecito, le carenze dell’apparato istituzionale. Gli articoli 17 e 78 dell’Ordinamento penitenziario garantiscono la possibilità d’ingresso nelle prigioni ai volontari, a tutti coloro cioè che abbiano «concreto interesse per l’opera di risocializzazione dei detenuti» e che possano «utilmente promuovere lo sviluppo dei contatti tra la comunità carceraria e la società libera». Attualmente i volontari che prestano assistenza e sostegno individuale ai detenuti sono generalmente di matrice cattolica (o comunque confessionale: sta nascendo una significativa presenza musulmana), mentre le associazioni del volontariato e del “terzo settore” impegnate nella realizzazione di attività di tipo formativo, ricreativo e culturale sono in prevalenza laiche. Gran parte delle attività che vengono svolte effettivamente dentro gli istituti sono realizzate grazie al lavoro del volontariato esterno che in certi casi ha la possibilità di utilizzare finanziamenti provenienti da altri cespiti, per esempio i fondi messi a disposizione dalle Regioni, o dalla Comunità europea. «Il problema del volontariato in carcere» dice Anastasia «è che la sua presenza è molto disomogenea sul territorio nazionale. Ci sono realtà in cui c’è un volontario ogni dieci detenuti (è il caso della Toscana e del Veneto) ed altre in cui c’è un volontario per istituto, o non ce n’è nemmeno uno (come a Brindisi). In generale nel Mezzogiorno ce ne sono pochissimi». In effetti la presenza del volontariato carcerario è legata all’iniziativa dei singoli direttori e anche alla ricchezza del tessuto associativo dei singoli territori. «Comunque» conclude Anastasia «stando ad alcuni dati, le organizzazioni no profit che lavorano nel mondo carcerario sono 473 e i volontari 16.724 [compresi quelli che operano fuori dalle prigioni, presso i Centri di servizio sociale per adulti, cfr. box a p. 77]: numeri che, sebbene non piccoli, vengono resi, a livello nazionale, meno significativi dalla disomogenea diffusione sul territorio di cui s’è parlato».
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