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concorso agenzia delle entrate 2015 - 892 posti per funzionari amministrativi

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    Immobili e aziende, nessun automatismo tra imposte dirette e registro



    L’art. 5, co. 3, del D.Lgs. n. 147/2015 ha introdotto una norma di carattere interpretativo, riguardante le cessioni di immobili ed aziende: in particolare, è stato stabilito che – ai fini dell’imposizione diretta (Ires ed Irpef) delle plusvalenze e dei ricavi, e della determinazione della base imponibile Irap – l’esistenza di un maggior corrispettivo non può essere presunta soltanto in virtù del valore, anche se dichiarato o accertato con riferimento all’imposta di registro, ipotecaria o catastale.


    Tale disposizione consente, pertanto, di superare l’orientamento giurisprudenziale che ammetteva l’accertamento di una maggior plusvalenza, in caso di cessione di azienda o di diritti reali immobiliari, facendo riferimento al valore accertato o definito ai fini dell’imposta di registro (Cass. 28 novembre 2014, n. 25290; Cass. 20 luglio 2012, n. 12632; Cass. 28 giugno 2012. n. 11012; Cass. 3 novembre 2011, n. 22869; Cass. 13 agosto 2010, n. 18705).

    A questo proposito, si ricorda che, secondo la Suprema Corte, sebbene l’imposta di registro e le imposte sui redditi definiscano diversamente le proprie ba*si imponibili (il valore di mercato per l’imposta di registro, e il corrispettivo per la determinazione della plusva*lenza), l’esistenza di una presunzione di corrispondenza del prezzo incassato con il valore di mercato legittima l’Amministrazione Finanziaria a procedere in via induttiva all’accertamento di un maggior valore dell’immobile o dell’azienda ceduti, ai fini delle imposte dirette, in presenza di un diverso valore accertato in relazione all’imposta di registro. La giurisprudenza di legittimità riteneva, pertanto, che fosse onere onere del contribuente superare la presunzione di corrispondenza tra corrispettivo e valore, fornendo la prova di aver, concretamente, venduto a prezzo inferiore.

    Tale filone giurisprudenziale era, inoltre, giunto a legittimare l’accertamento induttivo della maggior plusvalenza utilizzando il valore definito ai fini dell’imposta di registro nell’ambito di un accertamento con adesione (Cass. 13 dicembre 2012, n. 23001).
    Per effetto della previsione dell’art. 5, co. 3, del D.Lgs. n. 147/2015, è, pertanto, venuto meno il predetto automatismo, nella trasposizione dei valori di immobili e aziende dall’imposta di registro alle imposte dirette: per legittimare l’accertamento di una maggiore plusvalenza è necessario fornire elementi di prova ulteriori, oltre allo scostamento dal valore accertato ai fini del registro; il maggior valore accertato, dichiarato o definito ai fini delle imposte di registro o ipotecaria e catastale, da solo non è sufficiente a presumere un maggior corrispettivo ai fini delle imposte dirette. La novità normativa è, pertanto, coerente con la norma di comportamento AIDC n. 171, secondo cui, in caso di cessione d’azienda, la definizione di un maggior valore ai fini dell’imposta di registro non assume automatica efficacia ai fini delle imposte dirette: “L’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento analitico del reddito d’impresa, può procedere alla rettifica del corrispettivo di cessione dell’azienda contabilizzato solamente in presenza di fatti certi o di ulteriori presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, che siano aggiuntive rispetto ad un accertamento definito ai fini del registro e che provino che l’effettivo corrispettivo è superiore a quanto contabilizzato”.
    La predetta norma ha natura dichiaratamente interpretativa e, quindi, efficacia retroattiva: in altri termini, è suscettibile di incidere suicontenziosi in corso.

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      Perdite su crediti, nuovi criteri di deducibilità dal 2015



      La disciplina della deducibilità, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, delle perdite su crediti è stabilita dall’art. 101, co. 5, del D.P.R. n. 917/1986, così come modificato dall’art. 13, co. 1, lett. c), del D.Lgs. n. 147/2015, applicabile a partire dal periodo d’imposta in corso al 7.10.2015, ovvero dall’anno 2015 nel caso dei contribuenti aventi l’esercizio coincidente con l’anno solare. Rimane confermato che le perdite su crediti costituiscono un componente negativo fiscalmente rilevante se risultano da elementi certi e precisi, salvi alcuni casi specifici (parte dei quali individuati appunto dal predetto Decreto). Si tratta delle perdite su crediti di importo modesto e la cui scadenza sia decorsa da almeno sei mesi, oppure per i quali è prescritto il diritto alla riscossione: la medesima deroga è riconosciuta, nell’ipotesi di cancellazione dei crediti iscritti in bilancio a causa di eventi estintivi. Al di fuori di tali fattispecie, è co*mun*que ammessa ladeducibilità im*me*dia*ta, ovvero senza fornire ulteriori pro*ve, se il debitore si trova in una delle seguenti situazioni:
      · è assoggettato ad una procedura concorsuale italiana (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi, accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento e procedimento di liquidazione del patrimonio del debitore);
      · ha concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’art. 182-bis del R.D. n. 267/1942;
      · ha adottato un piano attestato di risanamento di cui all’art. 67, co. 3, lett. d), L. fall., iscritto presso il registro delle imprese (novità dall’art. 13, co. 1, lett. c), del D.Lgs. n. 147/2015, applicabile dal periodo d’imposta in corso al 7.10.2015);
      · è assoggettato ad una procedura estera equivalente prevista in Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni (novità dall’art. 13, co. 1, lett. c), del D.Lgs. n. 147/2015, applicabile dal periodo d’imposta in corso al 7.10.2015).
      Alla luce del suddetto ordine, così come riportato nell’art. 101, co. 5, del TUIR, si deve ritenere che il concetto di “equivalenza estera” non sia riferito esclusivamente alle procedure concorsuali italiane, ma anche all’accordo di ristrutturazione dei debiti e al piano attestato di risanamento. Per quanto concerne, invece, la nozione di “Stati o territori con i quali esiste un adeguato scambio di informazioni”, si potrebbe fare riferimento al D.M. 27.4.2015, emanato a norma dell’art. 1, co. 678, della Legge n. 190/2014.
      L’art. 13, co. 1, lett. d), del D.Lgs. n. 147/2015 ha, inoltre, aggiunto il co. 5-bis dell’art. 101 del D.P.R. n. 917/1986, stabilendo una specifica regola di deducibilità applicabile ai crediti di modesta entità oppure a quelli vantati nei confronti di debitori assoggettati a procedure concorsuali italiane, o estere equivalenti, o che hanno concluso un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o pubblicato, presso il registro delle imprese, un piano attestato di risanamento: la deduzione della perdita sui crediti è ammessa, ai sensi del co. 5, nel periodo di imputazione in bilancio, anche qualora tale iscrizione avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, ai sensi del predetto comma, sussistono gli elementi certi e precisi o il debitore si considera assoggettato a procedura concorsuale, sempre ché l’imputazione non avvenga in un periodo di imposta successivo a quello in cui, secondo la corretta applicazione dei principi contabili, si sarebbe dovuto procedere alla cancellazione del credito dal bilancio.

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        Cessione d’azienda, contratto in forma scritta per la prova



        L’operazione di trasferimento d’azienda si concretizza mediante la stipulazione di un contratto tra le parti (atto pubblico o scrittura privata autenticata), da iscrivere nel registro delle imprese entro 30 giorni – ai sensi dell’art. 2556, co. 2, c.c. – con effetto a partire dalla relativa data, sempreché le parti non stabiliscano diversamente. Il precedente co. 1 stabilisce, inoltre, che la forma scritta è richiesta ad probationem e non ad substantiam: affinché il contratto di trasferimento d’azienda possa essere opponibile ai terzi, è necessario provare l’esistenza dello stesso in forma scritta, ancorché il negozio giuridico conservi comunque validità ed efficacia tra le parti anche in assenza di forma scritta. Peraltro, se nel complesso dei beni trasferiti sono compresi anche beni, come gli immobili, per il cui passaggio di proprietà la legge richiede una particolare forma, la forma scritta è allora richiesta ad substantiam, e viene eseguita nello stesso atto di cessione d’azienda, a pena di nullità del contratto, ai sensi dell’art. 1350 del codice civile. La nullità dell’atto potrebbe, tuttavia, estendersi all’intero negozio di cessione d’azienda, allorquando i beni svolgano una funzione determinante all’interno dell’azienda, ovvero non sono facilmente sostituibili per le loro funzioni e caratteristiche: il ruolo determinante dei beni può essere individuato nel caso in cui, in assenza di quegli specifici beni, i contraenti non avrebbero sottoscritto il contratto definitivo di cessione. A questo proposito, si ricorda che la giurisprudenza di legittimità, con riferimento al trasferimento di un’azienda mobiliare, ha escluso che la prova scritta sia richiesta a pena di nullità, così come nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di un’azienda di piccolo commercio, non essendo la stessa soggetta a registrazione (Cass. 4986/1997 e 11851/1997).
        L’iscrizione dell’atto di cessione d’azienda nel registro delle imprese, a prescindere dalle modalità di conclusione dello stesso (atto pubblico o scrittura privata autenticata), ha lo scopo di risolvere eventuali conflitti che potrebbero sorgere tra i terzi e l’imprenditore, in relazione agli atti compiuti nell’esercizio dell’impresa. L’art. 2193 c.c. dispone, infatti, che, “i fatti dei quali la legge prescrive l’iscrizione, se non sono stati iscritti, non possono essere opposti ai terzi da chi è obbligato a richiederne l’iscrizione, a meno che questi provi che i terzi ne abbiano avuto conoscenza”. Dall’iscrizione dell’atto di cessione, pertanto, non derivano effetti sostanziali di acquisto dei diritti, ma solamente effetti propri della pubblicità dichiarativa, con conseguente opponibilità ai terzi dell’atto iscritto senza possibilità di prova contraria, in quanto sussiste una presunzione di conoscenza dei fatti iscritti, ovvero inopponibilità ai terzi dei fatti non iscritti, salvo che si provi che i terzi ne erano comunque a conoscenza. La mancata iscrizione dell’atto di cessione nel registro delle imprese non determina, quindi, un’inefficacia dell’atto, quanto piuttosto un’inopponibilità nei confronti dei terzi, con conseguente onere probatorio a carico dell’imprenditore di dimostrare che i terzi erano comunque a conoscenza del trasferimento dell’azienda.
        L’effetto traslativo della proprietà dell’azienda coincide con la data in cui viene redatto l’atto di cessione d’azienda. Tuttavia, nella prassi, al fine di semplificare le procedure contabili, spesso si ricorre alla postdatazione degli effetti della cessione, stabilendone la decorrenza, ad esempio, dal primo giorno del mese successivo all’atto di cessione. È, quindi, possibile che le parti prevedano la postdatazione degli effetti della cessione, ma non la loro retrodatazione, facendo coincidere gli effetti della cessione, ad esempio, con l’inizio del mese in cui avviene l’atto. Sul punto, si rammenta che, in tema di conferimento d’azienda, è stata negata la possibilità della retrodatazione degli effetti dell’operazione: in particolare, è stato osservato che è necessario dare rilevanza alle situazioni maturate al momento in cui l’operazione è realmente eseguita, altrimenti si verrebbero a creare differenze patrimoniali con evidenti riflessi sulla quantificazione della plusvalenza tassabile in capo al cedente (C.M. 9/252/1980).

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          Originariamente inviato da ROL Visualizza il messaggio
          allora tiè... fatti 4 risate

          senza pudore proprio...

          http://www.ilfattoquotidiano.it/2015...olare/2329090/
          Prima non riuscivo a postarti la risposta...
          Certo che se il sistema funzionasse bene gli evasori non avrebbero alibi: servizi pubblici migliori, migliore operato della Pubblica Amministratori, controllori che controllino "bene" come hai scritto prima e come e' spiegato in quest'articolo...

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            Preliminare di cessione, forma vincolata dall’atto definitivo



            Gli atti della cessione d’azienda, consistenti nell’eventuale preliminare e nel contratto vero e proprio, devono essere predisposti considerando gli effetti di alcune particolari disposizioni del codice civile, con riferimento ad alcuni aspetti che potrebbero necessitare di un’espressa regolamentazione pattizia, come quelli riguardanti il divieto di concorrenza (art. 2557 c.c.), la successione nei contratti (art. 2558 c.c.), nei crediti (art. 2559 c.c.) e debiti relativi all’azienda ceduta (art. 2560 c.c.), nonché la tutela dei lavoratori dipendenti (artt. 2112 c.c. e art. 47 della Legge 1990, n. 428/1990). In tale contesto, le parti – prima di procedere alla stipulazione del contratto definitivo di cessione d’azienda – preferiscono, talvolta, redigere un primo atto che assume la forma di un contratto preliminare, mediante il quale si impegnano a concludere, in un momento successivo, il contratto definitivo che produrrà il passaggio di proprietà dell’azienda. Tale atto deve contenere alcuni elementi essenziali, quali, ad esempio:
            · la descrizione dei beni costituenti l’azienda, o il ramo della stessa, oggetto della futura compravendita;
            · il prezzo pattuito, le modalità di pagamento e l’eventuale caparra da versarsi all’atto della stipulazione del preliminare;
            · la data entro cui formalizzare il definitivo passaggio di proprietà dell’azienda;
            · le eventuali condizioni sospensive o risolutive.
            Il contratto preliminare deve essere concluso, ai sensi dell’art. 1351 c.c., nella medesima forma che la legge prescrive per il contratto definitivo, a pena di nullità dello stesso: pertanto, atteso che il contratto di cessione d’azienda deve essere redatto in forma scritta, sia pure ad probationem, il preliminare deve essere altresì stipulato secondo il medesimo criterio, anche mediante semplice scrittura privata non autenticata. Sul punto, si osservi, peraltro, che la giurisprudenza di legittimità, con riferimento al trasferimento di un’azienda mobiliare, ha escluso che la prova scritta sia richiesta a pena di nullità, così come nei contratti aventi ad oggetto il trasferimento della proprietà o del godimento di un’azienda di piccolo commercio, non essendo la stessa soggetta a registrazione (Cass. 4986/1997, e 11851/1997).
            Particolari disposizioni sono, invece, previste, nell’ipotesi in cui l’azienda comprenda un bene immobile: al verificarsi di tale condizione, potrebbe essere utile avvalersi della possibilità prevista dall’art. 2645-bis c.c., che consente di trascrivere il contratto preliminare, permettendo al promissario acquirente una maggior tutela dei propri diritti. La trascrizione del contratto preliminare di cessione, che può avvenire con scrittura privata autenticata o per atto pubblico, rende inopponibile all’acquirente le formalità pregiudizievoli iscritte o trascritte contro l’alienante dopo la trascrizione stessa e, al contempo, attribuisce un privilegio speciale ai crediti dell’acquirente sul bene immobile oggetto del contratto nel caso di mancata esecuzione del preliminare stesso, pur nel limite di tre anni dalla trascrizione.
            A garanzia degli impegni che andrà assumere il promissario acquirente, viene sovente previsto, ai fini della stipula del contratto preliminare, il riconoscimento al promittente venditore di una clausola penale (art. 1382 c.c.) – che consiste nella promessa di dare qualcosa, limita il risarcimento alla prestazione promessa ed è dovuta indipendentemente dalla prova del danno – o di una caparra (confirmatoria o penitenziale), mediante la consegna immediata di una somma di denaro.
            La caparra confirmatoria, disciplinata dall’art. 1385 c.c., presenta le seguenti caratteristiche:
            · in caso di adempimento, deve essere restituita o imputata alla prestazione principale;
            · l’inadempimento della parte che ha dato la caparra consente alla controparte di recedere trattenendo la caparra stessa;
            · l’inadempimento della parte che ha ricevuto la caparra consente alla controparte di recedere dal contratto ed esigere il doppio della caparra;
            · la parte adempiente può, in alternativa, domandare l’esecuzione del contratto.
            La caparra penitenziale (art. 1386 c.c.) costituisce il corrispettivo per il diritto di recesso: la parte recedente perde la caparra data, o deve restituire il doppio di quella ricevuta.


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              Cessione d’azienda, responsabilità solidale per i debiti



              Il trasferimento dei debiti relativi all’azienda ceduta non è automatico: l’art. 2560 c.c. richiede, infatti, un espresso consenso dei creditoridel venditore, e stabilisce una responsabilità solidale delle parti (Cass. 4351/1997, 4367/1998 e 6173/1998), per i debiti anteriori al trasferimento risultanti dai libri contabili obbligatori. L’inesistenza dei libri contabili, dovuta a qualsiasi ragione, compresa la loro non obbligatorietà per lo specifico tipo di impresa, non rende configurabile l’elemento costitutivo della responsabilità del cessionario per i debiti relativi all’azienda ceduta (Cass. 5123/2006). L’iscrizione dei debiti, inerenti all’azienda ceduta, nei libri contabili obbligatori non può essere surrogata dalla prova che l’esistenza dei debiti era comunque conosciuta dal cessionario (Cass. 22831/2010 e 4726/2002).
              Non è, tuttavia, esclusa l’ammissibilità di una contraria previsione contrattuale, ovvero di un espresso patto di accollo, in forza del quale l’acquirente si obbliga a pagare anche i debiti contratti dall’alienante (o parte di essi) che non risultano dai libri obbligatori: in assenza di una simile pattuizione, quindi, la responsabilità dell’acquirente rimane limitata ai debiti risultanti dalle scritture contabili obbligatorie, ivi compresi i debiti risarcitori derivanti da atti o fatti del cedente che vengono fatti valere dal creditore successivamente alla cessione d’azienda. In altri termini, si ha responsabilità solidale delle parti quando i debiti inerenti all’azienda ceduta, sorti antecedentemente al trasferimento dell’azienda, risultano dai libri contabili obbligatori (libro giornale e degli inventari, altre scritture contabili richieste dalla natura e dalle dimensioni dell’impresa): restano propri del cedente, invece, i debiti non registrati, ovvero quelli annotati sui libri contabili facoltativi eventualmente istituiti dal cedente. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che il registro Iva acquisti, pur tenuto “obbligatoriamente” ai sensi dell’art. 25 del D.P.R. 633/1972, non può costituire elemento di prova per l’esistenza del debito (Cass. 2108/1994): l’orientamento della Suprema Corte si fonda sulla considerazione che i registri Iva non svolgono alcuna funzione probatoria dei rapporti di debito e credito relativi all’impresa, ma assolvono esclusivamente la funzione di documentare il debito fiscale ai fini Iva, essendo diretti, da un lato, a consentire l’esatto adempimento dell’obbligo tributario Iva e, dall’altro, a permettere l’accertamento da parte degli organi di controllo.
              In mancanza dell'iscrizione del debito nei libri contabili non obbligatori, l’acquirente è esonerato da responsabilità, a nulla rilevando che lo stesso fosse a conoscenza dei debiti all’atto di trasferimento. Nella prassi professionale, talvolta viene inserita una clausola liberatoriatesa ad escludere il trasferimento dei debiti, lasciando in capo al cedente la definizione dei rapporti pendenti con i fornitori: un’analoga pattuizione può riguardare anche i crediti, che rimangono così in capo al cedente. Tuttavia, anche in presenza di una volontà in tal senso delle parti, l’aver escluso in atto il trasferimento dei debiti non fa comunque venir meno la responsabilità solidale dell’acquirente(espressamente prevista dall’art. 2560, co. 2, c.c.), quando la passività risulta dai libri contabili obbligatori. Tale regime è applicabileesclusivamente nei confronti dei debiti in sé soli considerati, e non anche quando, viceversa, si ricolleghino a posizioni contrattuali non ancora definite, in cui il cessionario sia subentrato a norma del precedente art. 2558 c.c.: in tale caso, la responsabilità si inserisce nell’ambito della più generale sorte del contratto, anche se in fase contenziosa al tempo della cessione dell’azienda (Cass. 11318/2004).
              È, pertanto, opportuno che il cessionario presti molta attenzione alla solidità patrimoniale dell’alienante e verifichi, con estrema attenzione, la situazione debitoria risultante dalla contabilità aziendale, ferma restando comunque la possibilità per l’acquirente chiamato – nella propria qualità di coobbligato in solido – al pagamento dei debiti di rivalersi, in via di regresso, sull’alienante (Cass. 20153/2011). La ratio dell’art. 2560 c.c. è, infatti, quella di tutelare il terzo creditore che, per effetto della cessione dell’azienda e, quindi, del depauperamento della stessa, potrebbe vedere vanificate le proprie aspettative sulla soddisfazione del credito vantato nei confronti dell’alienante.

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                Cessione d’azienda, successione nei contratti da verificare



                L’art. 2558, co. 1, c.c. stabilisce che, se non è pattuito diversamente, il cessionario dell’azienda subentra in tutti i rapporti giuridici in essere relativi all’azienda ceduta, ad eccezione di quelli di natura personale legati alla figura dell’imprenditore, caratterizzati da un rapporto di fiducia tra gli originari contraenti. La disposizione è applicabile sia ai contratti aziendali – aventi ad oggetto il godimento di cespiti non di proprietà dell’impresa – che a quelli d’impresa, stipulati per l’esercizio dell’attività imprenditoriale, come quelli commerciali con clienti e fornitori, quelli assicurativi o di agenzia, appalto e concessione in uso di spazi pubblicitari (Cass. 13651/2004), sempreché non siano soggetti ad una specifica diversa disciplina (Cass. 7517/2010). Tale ambito operativo ricomprende anche i contratti di assicurazione contro gli infortuni e il rischio morte dei dipendenti, in quanto attinenti all’organizzazione imprenditoriale e, in particolare, alle risorse umane, che comunque seguono la circolazione dell’azienda per effetto dell’art. 2112 c.c. (Cass. 1278/2003). Il subentro “ipso iure” del cessionario si verifica anche nella clasuola compromissoria contenuta nel contratto stipulato per l’esercizio dell’azienda, senza che sia necessario un apposito patto di cessione, e senza che sia, pertanto, richiesta la forma scritta “ad substantiam” (Cass. 7652/2007).
                Il trasferimento dei contratti è, tuttavia, prospettabile soltanto se le prestazioni indicate negli stessi non sono state ancora eseguite, ovvero non sono esaurite, alla data di cessione dell’azienda: diversamente, non si è in presenza del trasferimento di un contratto, ma di una cessione di crediti o debiti, soggetta ad altre norme civilistiche (artt. 2559 e 2560 c.c.).
                L’art. 2558, co. 2, c.c. riconosce al terzo contraente la facoltà di non accettare il subentro del cessionario dell’azienda, purchè sussista una giusta causa, come nel caso in cui – per effetto dell’alienazione – subisca un pregiudizio dovuto a minorigaranzie patrimoniali del subentrante-acquirente, rispetto all’originario contraente-cedente dell’azienda: al ricorrere di tale ipotesi, può recedere dal contratto,entro tre mesi dalla notizia del trasferimento. In mancanza, icontratti si trasferiscono unitamente all’azienda, e l’acquirente – che sostituisce l’alienante nel rapporto contrattuale – diventa unico responsabile dell’esecuzione del contratto stesso.
                L’art. 2558 c.c. riconosce, inoltre, l’eventuale pattuizione contraria delle parti al trasferimento dei rapporti, a condizione che venga portata a conoscenza dei terzi per essere loro opponibile: in difetto, i terzi sono legittimati a ritenere che i contratti sono stati trasferiti all’acquirente, con l’effetto che risultano validi tutti gli atti compiuti con l’acquirente subentrante (adempimenti, proroghe, novazioni, ecc.).
                Nel caso dei contratti di lavoro dipendente, la predetta disciplina è integrata dall’art. 2112, co. 1, c.c., secondo cui – in caso di trasferimento d’azienda, così come definito dal successivo co. 5 – il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano (anzianità di servizio, godimento delle ferie maturate, mensilità aggiuntive e trattamento di fine rapporto).
                Il co. 2 della disposizione precisa, inoltre, che il cedente e il cessionario sono responsabili in solido per i crediti maturati dal lavoratore al tempo del trasferimento. Peraltro, è espressamente stabilito, al seguente co. 3, che il cessionario è tenuto ad applicare, fino alla scadenza, i trattamenti economici e normativi previsti dai contratti collettivi vigenti alla data del trasferimento, salvo che siano sostituiti da altri contratti applicabili all’impresa del cessionario. In ogni caso, il trasferimento dell’azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, ferma restando la facoltà di recesso prevista dalla normativa in materia di licenziamenti: se le condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento dell’azienda, al lavoratore è, infatti, riconosciuto il diritto di rassegnare le dimissioni (artt. 2112, co. 4, e 2119, co. 1, c.c.).
                Fermo restando che, qualora l’azienda ceduta occupi più di 15 dipendenti, deve essere altresì attivata la procedura preventiva di cui all’art. 47 della Legge 428/1990.

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                  Benefici prima casa, chiarimenti dell’Agenzia delle Entrate



                  L’Amministrazione Finanziari, con la R.M. n. 49/E/2015, ha rivisto la propria posizione in merito alla permanenza dell’agevolazione prima casa, nell’ipotesi di vendita prima del decorso del quinquennio ed acquisto, entro l’anno successivo alla data di alienazione, di un immobile a titolo gratuito, fornendo alcuni utili chiarimenti. Nel caso di specie, la vendita dell’immobile acquistato con l’agevolazione prima casa, entro 5 anni dall'acquisto, e l’acquisto di un altro fabbricato a titolo gratuito non comporta la decadenza dall'agevolazione, purchè avvenga entro un anno dall’alienazione, ed abbia ad oggetto un immobile destinato ad essere adibito ad abitazione principale. Su tale concetto, infatti, si è più volte pronunciata la giurisprudenza di legittimità, per la quale il semplice riferimento all’acquisto non fornisce alcuna informazione idonea ad escludere gli acquisti gratuiti. Quindi, anche l’acquisizione tramite donazione di un immobile abitativo da adibire a dimora abituale è idoneo ed escludere la decadenza dal beneficio goduto.
                  Quando si decade dal beneficio dell’agevolazione? IlD.P.R. n. 131/1986, in tema di agevolazione prima casa, precisa che la decadenza dall’agevolazione fruita in sede di acquisto di un’unità immobiliare abitativa si ravvisa laddove, prima del decorso di 5 anni dalla data dell’atto, l’acquirente trasferisca l’immobile agevolato. Malgrado ciò, la perdita del beneficio non opera qualora il contribuente, entro un anno dall’alienazione dell’immobile agevolato (effettuata prima del decorso dei 5 anni) procede all’acquisto di un altro immobile da adibire a propria abitazione principale. La decadenza, dunque, si realizza in caso di alienazione, sia a titolo gratuito che oneroso, dell’immobile agevolato, ma è possibile evitare tale decadenza acquistando, entro 1 anno dall’alienazione, un altro immobile, per il quale non è necessario che ricorrano le condizioni per l’applicazione dell’agevolazione prima casa, essendo sufficiente – a differenza dei requisiti richiesti per il precedente acquisto – che l’immobile acquistato sia destinato a dimora abituale e, quindi, ad abitazione principale. Per quanto attiene la natura dell’acquisto da effettuare entro un anno, l’Agenzia delle Entrate ha sempre adottato una posizione riduttiva, secondo cui solo il acquisto a titolo oneroso avrebbe potuto escludere la decadenza. In senso avverso, si è più volte espressa la giurisprudenza di legittimità: si veda, ad esempio la Cass. n. 16077/2013, secondo cui la norma riconosce l’agevolazione sia ai trasferimenti onerosi che a quelli gratuiti, stabilendo che per il mantenimento dell’agevolazione si debba procedere all’acquisto di un altro immobile da adibire a propria abitazione principale, senza richiedere che ciò debba necessariamente avvenire a titolo oneroso.
                  L’art. 7 della Legge n. 448/1998 riconosce un credito d’imposta in caso di trasferimento nel quinquennio con successivo acquisto, anche a titolo gratuito, entro l’anno, ed ha senso soltanto se il beneficio prima casa può mantenersi pure nell’ipotesi in cui l'acquisto della nuova abitazione, entro un anno dall'alienazione della prima, possa essere gratuito. Ciò che rileva, ai fini del mantenimento dell’agevolazione, è, dunque, che il contribuente ponga in essere rapidamente un atto, sia a titolo oneroso o gratuito, cui consegua un nuovo acquisto di altra abitazione Alla luce dei principi sostenuti dalla giurisprudenza di legittimità, la R.M. n. 49/E/2015, come anticipato, ha cambiato orientamento rispetto al passato, affermando che – in caso di rivendita dell’immobile acquistato con i benefici prima casa – il riacquisto a titolo gratuito di altro immobile è idoneo ad evitare la decadenza dal beneficio, se avviene entro 1 anno dall’alienazione, e purchè abbia ad oggetto un immobile idoneo a essere adibito ad abitazione principale del contribuente.

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                    Contratti di leasing, triplice gestione fiscale



                    La gestione contabile e fiscale dei contratti di locazione finanziaria, aventi ad oggetto sia beni mobili che immobili, costituisce da sempre un aspetto di particolare rilievo nella chiusura dei bilanci di esercizio e nella determinazione del reddito d’impresa. In tale contesto, è necessario tener conto che negli ultimi anni sono intervenute importanti modifiche normative: dapprima l’art. 4-bis del D.L. n. 16/2012, con decorrenza dai contratti stipulati dal 29 aprile 2012, ha stabilito che la deducibilità – sia dal reddito di lavoro autonomo (art. 54, co. 2 del D.P.R. n. 917/1986) che d’impresa (art. 102, co. 7, del Tuir) – dei canoni di locazione finanziaria non è più subordinata alla durata minima del contratto di leasing, se inferiore a quella minima fiscale, con la conseguenza che tali componenti negativi restano deducibili in base al previgente criterio temporale di competenza fiscale, a prescindere dal periodo di efficacia civilistica dell’atto. Infine, l’art. 1, co. 162, della Legge n. 147/2013, mediante il quale – pur confermando la “libertà” di durata civilistica del contratto di leasing – è stato modificato, con esclusivo riguardo ai contratti sottoscritti dal 1° gennaio 2014, il periodo di deduzione fiscale del contratto di locazione finanziaria, variabile in funzione della tipologia di bene (immobile, mobile o autoveicoli a deduzione limitata).
                    Nel caso dei contratti sottoscritti fino al 28 aprile 2012, si rendono applicabili le vecchie regole previste dalla previgente – rispetto all’entrata in vigore del D.L. n. 16/2012 – formulazione dell’art. 102 del Tuir, sino alla scadenza del contratto, la cui rilevanza fiscale è subordinata alla pre-condizione della “durata minima del contratto”.

                    Contratti stipulati dal 29 aprile 2012 al 31 dicembre 2013
                    L’applicazione dell’art. 4-bis del D.L. n. 16/2012, riguardante i contratti stipulati dal 29 aprile 2012 e prima dell’entrata in vigore della Legge n. 147/2013, comporta la gestione di un “doppio binario”, in quanto la durata civilistica del contratto di locazione finanziaria dipende dall’accordo concluso tra le parti, senza alcuna necessità di rispettare una durata minima:la deduzione fiscale dei canoni dal reddito d’impresa, al contrario, deve avvenire in un arco temporale predeterminato, e variabile, in funzione della tipologia del bene oggetto del contratto. Conseguentemente, se la durata effettiva del contratto è inferiore al periodo di deduzione fiscale sancito dall’art. 102, co. 7, del Tuir, in ciascun esercizio è necessario effettuare una variazione in aumento in sede di dichiarazione dei redditi, nonché valutare la necessità di rilevare le corrispondenti imposte anticipate, in presenza dei requisiti indicati dal principio contabile Oic 25. Diversamente, qualora la durata effettiva del contratto sia pari al periodo di deduzione fiscale stabilito dall’art. 102, co. 7, del D.P.R. n. 917/1986, non si verifica alcun disallineamento, con l’effetto che i canoni imputati a conto economico trovano un pieno riconoscimento anche nella determinazione del reddito d’impresa (fatte salve, ovviamente, le variazioni richieste per la quota interessi ai sensi dell’art. 96 del Tuir, e lo scorporo della quota terreno): se, invece, la durata effettiva del contratto è superiore al periodo di deduzione fiscale stabilito dall’art. 102, co. 7, del D.P.R. n. 917/1986, si ritiene che la deduzione fiscale debba avvenire comunque lungo la durata effettiva del contratto, in quanto la deduzione più breve sarebbe carente del requisito della previa imputazione a conto economico prevista dall’art. 109, co. 4, del Tuir.
                    Si segnala, inoltre, che – a norma dell’art. 36, co. 7 e 7-bis, del D.L. n. 223/2006 – non rileva il costo relativo all’area su cui insiste il fabbricato, o di cui ne costituisce pertinenza: secondo l’Agenzia delle Entrate, anche per quanto riguarda lo scorporo del terreno (parte della quota capitale indeducibile) si rende applicabile il principio di prevalenza della durata fiscale nel caso leasing immobiliare (C.M. n. 1/E/2007), ai fini del calcolo della parte di indeducibile del canone riferibile al terreno sul quale insiste il fabbricato strumentale.
                    I predetti criteri di deduzione riguardano, tuttavia, esclusivamente la quota capitale: il riferimento all’art. 96 del D.P.R. n. 917/1986 – operato dall’art. 102, co. 7, del Tuir – comporta che gli interessi passivi impliciti dei canoni di leasing partecipino, unitamente a tutti gli altri oneri finanziari, al procedimento di verifica della loro rilevanza tributaria, ai fini della determinazione del reddito imponibile Ires: sono, pertanto, integralmente deducibili sino a concorrenza degli interessi attivi e proventi assimilati, mentre l’eccedenza rileva nel limite nel limite del 30% del Risultato Operativo Lordo della gestione caratteristica (ROL), individuato sulla base della differenza A) – B) del conto economico civilistico, ovvero tra il valore ed i costi della produzione, senza considerare i canoni di locazione finanziaria dei beni strumentali, gli ammortamenti delle immobilizzazioni materiali ed immateriali. Lo scorporo della quota interessi, ai fini della determinazione del reddito d’impresa, deve essere effettuato sulla base del periodo di deduzione fiscale prevista dall’art. 102, co. 7, del Tuir (C.M. n. 17/E/2013).

                    Contratti stipulati dal 1° gennaio 2014
                    L’assetto normativo descritto, come anticipato, è stato nuovamente oggetto di modifiche ad opera della Legge n. 147/2013, con effetto per i contratti sottoscritti a partire dall’entrata in vigore della Legge stessa, ossia dal 1° gennaio 2014 (pur mantenendo diversi elementi introdotti per i contratti stipulati dal 29 aprile 2012, la cui disciplina è stata descritta nei precedenti paragrafi). In particolare, l’art. 1, co. 162, della Legge n. 147/2013 è intervenuto sull’art. 102, co. 7, del Tuir, applicabile a titolari di reddito d’impresa, riducendo, in primo luogo, il periodo di deducibilità fiscale dei canoni di leasing dei beni mobili strumentali, dai due terzi alla metà del periodo di ammortamento fiscale, qualora il contratto abbia ad oggetto beni mobili (compresi i veicoli commerciali ed industriali, nonché le autovetture esclusivamente strumentali e quelle assegnate in uso promiscuo ai dipendenti per la maggior parte del periodo d’imposta). In caso di beni immobili, la norma prevede che la deduzione dei canoni di leasing sia ammessa per un periodo non inferiore a dodici anni.
                    Restano, invece, confermati l’assenza di un vincolo di durata minima contrattuale, quale condizione di deducibilità dei canoni, così come il regime di rilevanza fiscale delle autovetture aziendali, ovvero quelle non esclusivamente non strumentali, che continuano a dedursi in quattro anni, quale periodo di ammortamento fiscale.
                    Si pongono, naturalmente, le medesime problematiche operative, in termini di scorporo della quota terreno (leasing immobiliari) e di quella relativa agli interessi passivi, ampiamente illustrate con riferimento alla disciplina introdotta dal D.L. n. 16/2012, rispetto alla quale l’Agenzia delle Entrate si è già espressa con la C.M. n. 17/E/2013.

                    Disciplina Irap
                    La base imponibile del tributo regionale delle società di capitali, ovvero i soggetti interessati dalla pubblicazione dell’approvato bilancio d’esercizio, è determinata in virtù del principio di derivazione, partendo dalla differenza tra il valore e i costi della produzione, così come risultante dal conto economico civilistico, escludendo alcuni componenti reddituali espressamente individuati dall’art. 5 del D.Lgs. n. 446/1997, tra i quali la quota interessi della locazione finanziaria desunta dal contratto. Conseguentemente, le quota capitale dei canoni di leasing di competenza è deducibile, ai fini Irap, nella misura desumibile dal contratto, così come imputata a conto economico. In altri termini, ai fini della determinazione della base imponibile dei soggetti Ires (ed Irpef “ordinari” per opzione), rilevano i principi contrattuali e non quelli fiscali di cui all’art. 102, co. 7, del Tuir, applicabili, invece, per gli altri soggetti. Ciò influisce anche sul quantum degli interessi impliciti dei canoni di leasing che gli artt. 5, co. 3, del D.Lgs. n. 446/1997 definiscono indeducibili – a prescindere dalla tipologia di contribuente – per la quota “desunta del contratto”: a questo proposito, si rammenta, tuttavia, che la C.M. n. 19/E/2009, aveva riconosciuto alle imprese Oic – ovvero soggette all’applicazione, in sede di redazione del bilancio, dei principi contabili nazionali – la possibilità di continuare ad utilizzare il metodo forfettario di cui all’art. 1 del D.M. 24 aprile 1998. In merito al trattamento Irap, la C.M. n. 17/E/2013 ha affermato la prevalenza della durata contrattuale per i soggetti Ires (art. 5 del D.Lgs. n. 446/1997), sia per la deduzione della quota capitale dei canoni di leasing che per lo scorporo della quota “terreno” ed interessi indeducibile.


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                      Liquidazione e cancellazione della società dal Registro delle Imprese



                      L’art. 28, co. 4, del D.Lgs. n. 175/2014 ha stabilito che – ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione di tributi e contributi, sanzioni ed interessi – l’estinzione della società di cui all’art. 2495 c.c. ha effetto trascorsi 5 anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle Imprese. Non è stata, tuttavia, disciplinata l’entrata in vigore della novità normativa: a parere dell’Agenzia delle Entrate, trattandosi di disposizione procedurale in quanto tesa a salvaguardare le azioni di recupero della pretesa erariale, la stessa è applicabile anche alle attività di controllo fiscale riferite a società che hanno già chiesto la cancellazione dal Registro delle Imprese, o sono state cancellate, prima del 13 dicembre 2014 (C.M. n. 31/E/2014, par. 19.2), nonché per attività di controllo riguardanti periodi d’imposta precedenti a tale data, ovviamente nel rispetto dei termini di decadenza e prescrizione previsti dalla legge (C.M. n. 6/E/2015, par. 13.1). Gli avvisi di accertamento sono notificati alle società cancellate, secondo le nuove regole, applicabili anche agli atti di accertamento, liquidazione e riscossione – ancorchè interessati da contenzioso – notificati prima del 13 dicembre 2014, e relativi a società cancellate prima di tale data. A questo proposito, l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che l’avviso di accertamento contenente la rettifica della dichiarazione della società cancellata dal Registro delle Imprese sarà emesso nei confronti della società e notificato alla stessa presso la sede dell’ultimo domicilio fiscale, in quanto, a tale fine, l’effetto dell’estinzione si produrrà soltanto dopo il decorso di 5 anni dalla cancellazione (C.M. n. 6/E/2015, par. 13.4). Fermo restando che la società, precedentemente alla cancellazione, può avvalersi della facoltà di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale, per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano, ai sensi dell’art. 60, co. 1, lett. d), del D.P.R. n. 600/1973.
                      In merito alla retroattività della novità in commento, sostenuta dall’Amministrazione Finanziaria, si segnala, tuttavia, l’orientamento contrario della giurisprudenza di legittimità, che non ritiene possibile attribuire natura procedimentale a tale norma (Cass. 6743/2015): si tratta, infatti, di una disposizione sostanziale, in quanto incide sulla capacità della società cancellata dal Registro delle Imprese. A questo proposito, si osservi che a favore della tesi dell’irretroattività depongono sia la clausola generale contenuta nell’art. 11 della Preleggi che l’art. 3, co. 1, della Legge n. 212/2000 (c.d. Statuto del Contribuente), secondo cui – salva l’interpretazione autentica – le leggi tributarie non sono retroattive: conseguentemente, il predetto differimento quinquennale degli effetti della cancellazione dal Registro delle Imprese è applicabile esclusivamente alle richieste presentate a decorrere dal 13 dicembre 2014, ovvero dalla data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 175/2014.
                      Nel caso di crediti tributari sorti successivamente alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese, in presenza di presupposti maturati precedentemente alla stessa, la titolarità del diritto al rimborso è riconosciuto, pro quota, direttamente ai soci, che sono legittimati a richiederlo (C.M. n. 6/E/2015, par. 13.7): ai fini della semplificazione dell’erogazione del rimborso, è possibile delegare alla riscossione uno dei soci oppure un terzo, anche lo stesso liquidatore, previa comunicazione al competente ufficio dell’Agenzia delle Entrate (R.M. n. 77/E/2011).
                      L’Amministrazione Finanziaria ha altresì precisato che l’art. 28, co. 4, del D.Lgs. n. 175/2014 è applicabile anche alle società di persone, ferma restando la diversa disciplina della responsabilità dei soci collegata alla differente forma societaria (C.M. n. 6/E/2015, par. 13.6): tale orientamento si fonda sulla considerazione che la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto il principio dell’estinzione della società di capitali a seguito della cancellazione ricorrere anche con riguardo alle società di persone, seppure con le dovute distinzioni in ordine allanatura dichiarativa, anziché costitutiva, della cancellazione e alla diversa misura delle responsabilità dei soci (Cass. nn. 6070, 6071, 6072 del 12 marzo 2013, e nn. 4060, 4061 e 4062 del 22 febbraio 2010).
                      L’art. 28, co. 5, del D.Lgs. n. 175/2014 ha, inoltre, riformulato il co. 1 dell’art. 36 del D.P.R. n. 602/1973, per effetto del quale i liquidatori dei soggetti Ires che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione e per quelli anteriori – comprese le ritenute dei lavoratori dipendenti (C.M. n. 31/E/2014, par. 19.2) – rispondono in proprio del pagamento delle imposte, se non provano, alternativamente, di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci od associati, oppure i crediti di ordine superiore a quelli tributari.
                      La novellata norma precisa, inoltre, che “tale responsabilità è commisurata all’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza in sede di graduazione dei crediti”. La formulazione della disposizione pare, pertanto, allinearsi all’orientamento di una parte della giurisprudenza di merito in relazione all’ordine di pagamento dei creditori, secondo cui nella liquidazione ordinaria, non essendo previste specifiche disposizioni in merito, si dovrebbe ritenere applicabile – come sostenuto dalla prevalente giurisprudenza (Cass. n. 3321/1996, Trib. Genova n. 1125/2013 e Trib. Milano n. 14632/2010, contra Cass. n. 792/1970 e 1273/1968, Trib. Udine 26 febbraio 2010) – il generale principio civilistico della “par condicio creditorum” (art. 2741 c.c.). Conseguentemente, il liquidatore, nell’ipotesi di incapienza dell’attivo rispetto all’ammontare dei debiti, dovrebbe rispettare le cause legittime di prelazione (ipoteca, pegno e privilegio) e, quindi, le disposizioni civilistiche in materia, come l’art. 2777 c.c. (C.M. n. 6/E/2015, par. 13.5).

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