Ciò spiega anche perché le contrattazioni collettive nazionali di comparto escludano che la pubblica amministrazione possa assoggettare il dipendente al periodo di prova.
Le progressioni verticali, infatti, sono funzionali a consentire la progressione di carriera verificata la professionalità acquisita o acquisibile dal dipendente, talché il relativo superamento delle prove selettive che le supportano rappresenta ex se il momento di verifica della sua idoneità alla copertura del posto ascritto alla categoria professionale superiore.
In definitiva, ed in ragione delle argomentazioni enucleate, le progressioni verticali sono veri e proprî concorsi interni, come è stato riconosciuto anche nella dichiarazione congiunta n. 1 al c.c.n.l. del 22/1/2004, la cui ammissibilità deve confrontarsi con i principî sanciti ed elaborati dalla Corte costituzionale in materia di garanzie della preservazione dell'accesso dall'esterno. E ciò, si badi bene, a prescindere dalla loro ricostruzione in termini pubblicistici piuttosto che privatistici per almeno due assorbenti motivazioni, anche se appare ormai evidente che le progressioni verticali non sono il risultato della gestione del rapporto di lavoro mediate atti iure privatorum.
In primo luogo, perché non si può consentire di conseguire per via contrattuale ciò che è precluso alla legge in senso formale o sostanziale, soprattutto osservando che la normativa della contrattazione collettiva nazionale sfugge al sindacato di costituzionalità per difetto del requisito della forza di legge previsto dall'art. 134, comma 1 Cost. per l'attivazione dei relativi giudizî. In secondo luogo, in quanto i poteri ascritti al privato datore di lavoro nella gestione del rapporto lavorativo sono pur sempre attratti in un'attività funzionalizzata al conseguimento del pubblico interesse, rispetto alla quale i principî di buon andamento ed imparzialità sanciti dall'art. 97, comma 1 Cost. costituiscono non solo titolo, ma anche limite.
Proprio per queste ragioni è del tutto inammissibile ritenere «la regolazione e la attuazione delle «progressioni verticali» debbano essere ricomprese nella attività di gestione di diritto comune secondo la disciplina dell'art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001», come superficialmente risulta dalla dichiarazione congiunta n. 1 al c.c.n.l. 22/1/2004
Le progressioni verticali, infatti, sono funzionali a consentire la progressione di carriera verificata la professionalità acquisita o acquisibile dal dipendente, talché il relativo superamento delle prove selettive che le supportano rappresenta ex se il momento di verifica della sua idoneità alla copertura del posto ascritto alla categoria professionale superiore.
In definitiva, ed in ragione delle argomentazioni enucleate, le progressioni verticali sono veri e proprî concorsi interni, come è stato riconosciuto anche nella dichiarazione congiunta n. 1 al c.c.n.l. del 22/1/2004, la cui ammissibilità deve confrontarsi con i principî sanciti ed elaborati dalla Corte costituzionale in materia di garanzie della preservazione dell'accesso dall'esterno. E ciò, si badi bene, a prescindere dalla loro ricostruzione in termini pubblicistici piuttosto che privatistici per almeno due assorbenti motivazioni, anche se appare ormai evidente che le progressioni verticali non sono il risultato della gestione del rapporto di lavoro mediate atti iure privatorum.
In primo luogo, perché non si può consentire di conseguire per via contrattuale ciò che è precluso alla legge in senso formale o sostanziale, soprattutto osservando che la normativa della contrattazione collettiva nazionale sfugge al sindacato di costituzionalità per difetto del requisito della forza di legge previsto dall'art. 134, comma 1 Cost. per l'attivazione dei relativi giudizî. In secondo luogo, in quanto i poteri ascritti al privato datore di lavoro nella gestione del rapporto lavorativo sono pur sempre attratti in un'attività funzionalizzata al conseguimento del pubblico interesse, rispetto alla quale i principî di buon andamento ed imparzialità sanciti dall'art. 97, comma 1 Cost. costituiscono non solo titolo, ma anche limite.
Proprio per queste ragioni è del tutto inammissibile ritenere «la regolazione e la attuazione delle «progressioni verticali» debbano essere ricomprese nella attività di gestione di diritto comune secondo la disciplina dell'art. 5, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001», come superficialmente risulta dalla dichiarazione congiunta n. 1 al c.c.n.l. 22/1/2004
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