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L'angolo di ROL

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    “Ma a questo come gli date ascolto?Attenzione, state attenti: è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo. A questo qua queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo”, dirà di Scarantino un pentito di rango come Salvatore Cancemi, durante un confronto davanti ai magistrati.

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      mentre il balordo confessa tra le lacrime la sua impostura, i giudici di ben tre processi (Borsellino 1, 2 e 3) e in tutti e tre i gradi di giudizio metteranno il bollo sulla sua autenticità.

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        “Sono stato usato come un orsacchiotto con le batterie costretto con le minacce a prendere in giro lo Stato, in galera ho mangiato anche i vermi, le guardie mi dicevano che mentre ero in carcere mia moglie andava a battere, e facevano allusioni al suicidio di Gioè”, dirà anni dopo, raccontando per l’ennesima volta le violenze subite: “Io non sapevo neanche dov’era via D’Amelio. Ho parlato solo per paura: mi torturavano, mi picchiavano, mi facevano morire di fame”.

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          Dichiarazioni che – dopo la sentenza del Quater – rilanciano l’interrogativo principale di questa storia nera: chi e perché torturava Scarantino con il fine di farlo diventare un falso pentito? Mario Bo e Vincenzo Ricciardi sono due dei funzionari di polizia che gestirono la sua. Sono stati a lungo indagati e poi archiviati per lo sviamento delle indagini insieme al loro collega Salvatore La Barbera. Citati per ben due volte a testimoniare al processo Borsellino Quater, la prima volta si sono avvalsi della facoltà di non rispondere, visto che erano ancora indagati. La seconda, invece, sono stati autori di una serie di dichiarazioni talmente piene di amnesie che persino il pm Stefano Luciani ha manifestato in aula la sua insofferenza: “Trovo inaccettabile che funzionari dello Stato vengano in aula a dire una fila interminabile di non ricordo”.

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            Oltre a Bo, Ricciardi e La Barbera, la procura di Caltanissetta ha indagato – l’inchiesta è ancora in corso – anche altri sei sottufficiali di polizia accusati di aver “vestito il pupo”,preparato cioè Scarantino ai vari interrogatori, in modo che il suo status di collaboratore venisse avvalorato dalle dichiarazioni rese davanti ai pm.

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              Tutti gli investigatori hanno sempre negato con forza le accuse di Scarantino. All’epoca erano tutti giovani investigatori guidati da un esperto superiore: si chiamava Arnaldo La Barbera e su di lui si sono concentrati negli anni i maggiori sospetti sulla genesi del depistaggio di via d’Amelio. Ex capo della squadra mobile di Palermo, poi promosso questore e prefetto, quindi a capo dell’Ufficio centrale per le operazioni speciali, La Barbera concluderà la sua carriera con l’irruzione alla scuola Diaz di Genovadurante il G8 del 2001. Non avrà il tempo di essere processato né per quel clamoroso pestaggio e nemmeno per altro dato che morirà nel 2002 per un tumore al cervello.

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                Ad assegnare le indagini sulla strage di via d’Amelio al gruppo “Falcone-Borsellino”, guidato da La Barbera, fu un decreto urgente della presidenza del consiglio, su iniziativa del prefetto Luigi De Sena, che in quel momento dirigeva un dipartimento del Sisde e poi sarebbe diventato un senatore del Pd, prima di morire nel 2015. De Sena, tra l’altro è l’uomo che fa entrare nei servizi Emanuele Piazza(ex poliziotto scomparso nel nulla a Palermo nel marzo del 1990), su indicazione del suo autista, Vincenzo Di Blasi, poi condannato per favoreggiamento ai boss di Brancaccio. Il futuro senatore del Pd è anche l’uomo che “ingaggia” al Sisde La Barbera, collaboratore del servizio d’intelligence con lo pseudonimo Rutilius, attività durante la quale il poliziotto non produrrà neanche una relazione. Interrogato sul punto, De Sena non offrirà un contributo granché utile ai magistrati, non ricordando neanche le relazioni del Sisde che già il 13 agosto del 1992 individuavano i ladri della Fiat 126 poi trasformata in autobomba. Una sorta di marchio di fabbrica del depistaggio.

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                  Era al vertice del Sisde all’epoca anche Bruno Contrada, più volte indicato come presente nei pressi di vai d’Amelio subito dopo la strage – notizie mai confermate – e di recente protagonista di una controversa sentenza della Cassazione, che ne ha annullato la condanna per concorso esterno a Cosa nostra. È stato a lungo collaboratore di Contrada, Lorenzo Narracci che dalla procura di Caltanissetta è stato indagato per più di cinque anni con l’accusa di concorso nella strage di via d’Amelio. Nel 2010 Spatuzza lo ha riconosciuto durante un confronto all’americana come l’uomo esterno a Cosa nostra presente nel garage di via Villasevaglios, dove la Fiat 126 rubata a Pietrina Valenti venne trasformata in autobomba da far brillare in via d’Amelio.

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                    E se rimangono irrisolte molteplici domande legate al depistaggio e alle modalità con cui venne messa in scena la strage, sconosciuta è la fine di uno dei principali pezzi mancanti di questa storia: che fine ha fatto l’Agenda rossache Borsellino portava sempre con sé fino all’ultimo? “Il giorno della sua morte, vidi mio padre mettere nella borsa, tra le altre cose, un’agenda rossa da cui non si separava mai”, ha detto Lucia Borsellino in aula, rievocando quel pomeriggio del 19 luglio 1992, quando il magistrato – dopo pranzo – si spostò da Villagrazia di Carini a Palermo per andare a prendere la madre e portarla dal medico. “Non so perché la usasse – ha aggiunto – o cosa ci fosse scritto perché non ero solita chiedergli del suo lavoro”.

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                      “Tre mesi dopo la strage – ha spiegato sempre Lucia – la borsa ci venne riconsegnata dal questore Arnaldo La Barbera, ma mancava l’agenda rossa. Mi lamentai subito della mancanza di quell’agenda rossa. Ho avuto una reazione scomposta e La Barbera, rivolgendosi a mia madre, le disse che probabilmente avevo bisogno di un supporto psicologico perché era particolarmente provata. Mi fu detto che deliravo

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