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concorso agenzia delle entrate 2015 - 892 posti per funzionari amministrativi

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    L’esercizio del potere di autotutela, disciplinato dalla L. 241/1990, rappresenta quella generale capacità della Pubblica Amministrazione di risolvere in maniera autonoma eventuali “conflitti” conseguenti l’emissione di provvedimenti, nel tentativo di realizzare quell’interesse pubblico che la stessa ha il dovere di tutelare, assicurando al tempo stesso equità e trasparenza nella propria azione.
    In ambito tributario si riscontra parimenti un generale potere di annullamento d’ufficio o di rinuncia all’imposizione in caso di auto accertamento - introdotto con il D.M. 37/1997 -esercitabile sia spontaneamente che su istanza del contribuente, anche in pendenza di giudizio o nei casi di non impugnabilità dell’atto, fin tanto che non intervenga una sentenza passata in giudicato in favore dell’Amministrazione Finanziaria. Accanto a tale potere di autotutela, per così dire “negativa”, è possibile individuare altre due forme di esercizio di correzione di errori e/o omissioni in cui possa essere incorsa l’A.F.:
    • quello di autotutela c.d. “sostitutiva”;
    • quello di autotutela “integrativa”.


    Identificare le differenze tra le suddette forme di rettifica degli atti emessi dagli Uffici può risultare di non poca importanza in sede di difesa del contribuente, in quanto può capitare di registrarne un utilizzo lesivo del diritto di difesa.
    Attraverso l’esercizio del potere di autotutela sostitutiva, infatti, l’Ufficio non fa altro che ritirare un atto affetto da carenze formali (e non sostanziali), provvedendo alla correzione dei vizi determinanti il ritiro, per poi procedere all’emanazione di un nuovo atto che dovrà tassativamente riprodurre gli elementi sostanziali contenuti nel precedente. Diversamente,il potere di integrare un avviso di accertamento già emanato - in ossequio a quanto disposto dall’art. 43, comma 4, del D.P.R. 600/1973 in materia di II.DD. e dall’art. 57, comma 4, del D.P.R. 633/1972 in materia IVA - si basa sull’assunto che il nuovo avviso debba contenere elementi non solo rinvenuti in epoca successiva al primo accertamento, ma altresì che siano tali da modificare, nella sostanza, l’oggettività del presupposto d’imposta. A pena di nullità, quindi, i fatti su cui deve basarsi l’integrazione possono essere considerati “nuovi” solo e soltanto se, al momento dell’emissione del primo accertamento, non erano conosciuti né conoscibili in base all’attività istruttoria svolta.
    L’unica caratteristica che accomuna le due fattispecie di autotutela è dato dal rispetto dei termini decadenziali per l’accertamento, in quanto nessuna delle due tipologie di atto (né quello “sostitutivo” né quello “integrativo”) può consentire una riapertura di termini già spirati ai sensi dell’art. 43, commi 1-3, del D.P.R. 600/1973.
    Proprio con riguardo al rapporto tra autotutela sostitutiva e accertamento integrativo, è possibile in questa sede citare un passaggio della Sentenza n. 4372/2011, in occasione della quale la Suprema Corte ebbe modo di affermare che “…il potere di accertamento integrativo ha per presupposto un atto (l’avviso di accertamento originariamente adottato) che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso accertamento, il quale, nella ricorrenza del presupposto della conoscenza di nuovi elementi da parte dell’ufficio, integra e modifica l’oggetto ed il contenuto del primitivo atto cooperando all’integrale determinazione progressiva dello’oggetto dell’imposta, conservando ciascun atto la propria autonoma esistenza ed efficacia… L’atto di autotutela (che noi abbiamo definito “sostitutiva”), al contrario, assume ad oggetto un precedente atto di accertamento che è illegittimo, ed al quale si sostituisce con innovazioni che possono investire tutti gli elementi strutturali dell’atto…”.
    Ecco che allora in sede di difesa potranno contestarsi, nel caso:
    • l’emissione di un nuovo atto sostitutivo di quello originario, ma nel quale siano state inserite modifiche sostanziali e/o vi sia una diversa valutazione del medesimo materiale probatorio;
    • l’integrazione di accertamento attraverso un secondo atto che non si fondi su elementi nuovi o non conosciuti/conoscibili al momento del precedente accertamento;
    • l’illegittima riapertura dei termini per l’accertamento tramite tali atti sostitutivi o integrativi.


    Tutto questo, come sancito dai giudici della CTP Lecce con la Sentenza n. 145del 29/01/2013, anche e soprattutto nel tentativo di ribadire la necessità di “…salvaguardare la concentrazione delle attività di verifica e accertamento, scongiurando uno stillicidio di iniziative inquisitorie…”.

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      Negli ultimi anni abbiamo assistito all’importante azione di controllo intrapresa dall’amministrazione finanziaria nei confronti delle realtà sportive dilettantistichefinalizzata ad intercettare e neutralizzare le ipotesi di abuso della disciplina fiscale agevolativa prevista in favore di tali enti.
      Con la circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 20/10 e quella della Guardia di Finanza n. 1/08, infatti, per la prima volta sono state espressamente previste quote di verifiche e accertamenti a carico degli enti non commerciali, dedicando specifica attenzione alle realtà associative sportive giudicate come fenomeni ad alto rischio evasione.
      Le società sportive dilettantistiche, rientrando dal punto di vista della classificazione fiscale tra gli enti commerciali di cui all’art. 73, comma 1, lett. a) del TUIR, sono andate inizialmente esenti da queste prime ondate di controlli ma, data l’applicabilità delle medesime agevolazioni fiscali riservate alle associazioni sportive dilettantistiche, si è estesa anche nei loro riguardi l’attività di verifica.
      Le esperienze accertative rilevate sul territorio nazionale, ad onore del vero, sono ancora poche e ciò si spiega con la complessa atipicità che contraddistingue questi soggetti: enti non commerciali il cui reddito viene determinato con l’applicazione di alcune agevolazioni proprie degli enti non commerciali a carattere associativo.
      Nelle verifiche che si è avuto modo di visionare, gli approcci accertativi avuti dall’amministrazione finanziaria, necessariamente, partivano da presupposti diversirispetto a quelli avuti nei confronti delle asd ma finalizzati a riscontrare le medesime violazioni e con similari conseguenze in termini di recupero d’imposta.
      Le prime verifiche sono di carattere squisitamente formale e rivolte all’accertamento della natura giuridica del soggetto sottoposto al controllo, riscontro determinante ai fini dell’individuazione delle norme che disciplinano gli obblighi di tenuta delle scritture contabili.
      Il primo atto che viene sottoposto a minuzioso controllo è lo statuto della società.
      Ai fini della corretta qualificazione giuridica e fiscale come ente sportivo dilettantistico è, infatti, necessario che la società si sia dotata di uno statuto contenente i requisiti di cui all’art. 90, commi 17 e 18 della L. 289/03, indispensabili ai fini del corretto perfezionamento della natura sportivo dilettantistica dell’ente certificata dall’ iscrizione nel Registro nazionale delle associazioni e società sportive dilettantistiche tenuto presso il CONI.
      Il riscontro da parte dei verificatori dell’assenza di questi presupposti determina il probabile disconoscimento di tutte le agevolazioni fiscali derivanti da questo status.
      Oltre che rispettoso dell’art. 90 cit., lo statuto delle società sportive dilettantesche che intendono usufruire della decommercializzazione dei corrispettivi specifici incassati per i servizi sportivi resi nei confronti di soggetti tesserati alle medesime organizzazioni nazionali alle quali la società è affiliata, previsto dall’art. 148, comma 3 del TUIR, deve essere anche rispettoso delle clausole previste al comma 8 della medesima norma, circostanza più volte confermata dalla medesima amministrazione finanziaria in numerosi documenti di prassi (uno fra tutti la Circ. 21/E/03).
      Negli accertamenti esaminati la riscontrata carenza di previsioni statutarie qualil’intrasmissibilità della quota societaria per atto tra vivi e la non rivalutabilità della stessa o la previsione del voto singolo e non per quote, contrariamente a quanto invece espressamente previsto dalla normativa civilistica in materia societaria, ha portato l’amministrazione finanziaria a un immediato recupero a tassazione dei corrispettivi specifici incassati dalla SSD se originariamente considerati dalla stessa decommercializzati.
      Oltre poi alle ordinarie verifiche in merito all’invio del modello EAS o al rispettodell’obbligo di tracciabilità delle movimentazioni in contanti disposto dall’art. 25 della L. 133/99 per le associazioni e le società sportive dilettantistiche che utilizzano il regime fiscale di cui alla legge 398/91, merita un cenno particolare l’approccio assunto dai verificatori in merito all’ imposta sul valore aggiunto.
      Nonostante la prassi abbia ormai portato a considerare generalmente non assoggettabili ad imposizione ai fini iva i corrispettivi specifici incassati dalle SSD per i corsi sportivi nei confronti di tesserati alla medesima organizzazione a carattere nazionale alla quale è affiliata la società ex art. 4, comma 4 DPR. 633/72, norma speculare nel contenuto all’art. 148 TUIR prima ricordato, in realtà l’Agenzia delle Entrate in sede ispettiva opera un’indagine di carattere diverso verificando l’esenzione per attività didattica dei corrispettivi per i corsi sportivi, in virtù della previsione contenuta all’interno dell’art. 10, comma 20 del TU iva.
      Un simile approccio lascia molte incertezze in merito alla posizione dell’amministrazione finanziaria sulla legittima applicabilità in senso estensivo alle SSD, enti commerciali, dell’agevolazione prevista espressamente dall’art. 4 cit, in favore delle associazioni sportive dilettantistiche, trattandosi di un’imposta di origine e disciplina comunitaria che viene a livello interno, per il tramite del comma 1 dell’art. 90 cit, applicata anche alle SSD.
      Ad onore del vero nessun documento di prassi amministrativa si esprime espressamente al riguardo.

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        Il giorno 6 ottobre, la Corte Costituzionale ha depositato la sentenza n.228 con cui viene dichiarata illegittima – con riferimento al mondo del lavoro autonomo - la partedell’articolo 32 del DPR 600/1973, nella quale eventuali prelevamenti dai conti correnti bancari (o, più in genere, dismissioni da rapporti finanziari) non transitati nelle scritture contabili o privi del beneficiario, si trasformano in presunti compensi.
        Ormai abbiamo “smaltito” la notizia e si tratta ora di metabolizzarla, cercando di capire come questa sentenza possa cambiare lo scenario nel quale gli Uffici si sono mossi sinora.
        La pronuncia è stata resa a seguito di una rimessione della CTR Lazio del 2013 che,coraggiosamente, ha rilevato come i precedenti approdi sulla materia fosserocompletamente slegati da ciò che normalmente accade nella realtà professionale, con la conseguente impossibilità di creare una assimilazione con il mondo delle imprese.
        In pratica, ed in estrema sintesi, veniva riscontrato che la norma:
        1. violerebbe il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Costituzione, oltre che dell’art. 3, rilevando che per il reddito da lavoro autonomo non varrebbero le correlazioni logico presuntive tra costi e ricavi tipiche del reddito d’impresa e il prelevamento sarebbe un «fatto oggettivamente estraneo all’attività di produzione del reddito professionale», idoneo a costituire un «mero indice generale di spesa». Inoltre, la norma censurata sarebbe «irrazionale» qualunque sia la lettura ad essa data tra quelle possibili: o la prova contraria che incombe al contribuente potrebbe ritenersi soddisfatta «con la mera indicazione del beneficiario, divenendo, però, tanto irrazionale quanto inutile sul piano dell’accertamento dei maggiori redditi» oppure – seguendo quanto sostenuto dall’Amministrazione finanziaria – richiederebbe necessariamente anche la giustificazione causale dei prelevamenti, così imponendo «un adempimento aggiuntivo rispetto a quello rappresentabile sulla base di una lettura piana del testo normativo»;
        2. se applicata agli anni d’imposta in corso o anteriori alla novella legislativa (quindi sino al 2004), comporterebbe per i contribuenti professionisti un onere probatorio imprevedibile e impossibile da assolvere, in contrasto con l’art. 24 della Costituzione e con il principio di tutela dell’affidamento, richiamato anche nell’art 3, comma 2, della legge 27 luglio 2000, n. 212, nonché con l’art. 111 della Costituzione per violazione del principio di parità delle parti.

        La seconda censura, peraltro attinente solo questioni di contenzioso ascrivibili alle annualità sino al 31.12.2014, viene ritenuta inammissibile per una questione di natura “formale” e, pertanto, la lasciamo ai margini del commento.
        Diversamente, la questione è fondata in riferimento alle censure di cui agli artt. 3 e 53della Costituzione, con conseguente assorbimento di quelle relative agli artt. 24 e 111.
        Anche se le figure dell’imprenditore e del lavoratore autonomo sono per molti versi affini, sussistono specificità della categoria degli autonomi che fanno ritenere non legittimo l’utilizzo della medesima presunzione per cui un prelevamento non giustificato costituirebbe un compenso.
        Se, infatti, il fondamento economico-contabile di tale meccanismo è stato ritenutocongruente con il fisiologico andamento dell’attività imprenditoriale, il quale è caratterizzato dalla necessità di continui investimenti in beni e servizi in vista di futuri ricavi (Corte Costituzionale, sentenza n. 225 del 2005), l’attività svolta dai lavoratori autonomi, al contrario:
        • si caratterizza per la preminenza dell’apporto del lavoro proprio e la marginalità dell’apparato organizzativo, con la conseguente irrazionalità nella valorizzazione di eventuali acquisti non fiscalizzati;
        • rende credibile che gli eventuali prelevamenti (che peraltro dovrebbero essere anomali rispetto al tenore di vita secondo gli indirizzi dell’Agenzia delle entrate) vengono ad inserirsi in un sistema di contabilità semplificata di cui generalmente e legittimamente si avvale la categoria; assetto contabile da cui deriva la fisiologica promiscuità delle entrate e delle spese professionali e personali.


        Infine, la Corte aggiunge (per fortuna!) che la suddetta presunzione non può nemmenotrovare fondamento nella generica esigenza di combattere l’evasione fiscale; casomai, tale esigenza sarebbe soddisfatta dalla recente produzione normativa sulla tracciabilità dei movimenti finanziari che, oltre ad essere uno strumento di lotta al riciclaggio di capitali di provenienza illecita, persegue il dichiarato fine di contrastare l’evasione o l’elusione fiscale attraverso la limitazione dei pagamenti effettuati in contanti che si possono prestare ad operazioni “in nero”.
        Dunque, la presunzione è lesiva del principio di ragionevolezza nonché della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito (rectius, compenso).
        Per tali motivi, la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del DPR 29 settembre 1973, n. 600, limitatamente alle parole «o compensi». Ciò significa, evidentemente, che la stessa presunzione rimane completamente operante per gli imprenditori.
        Ci piace davvero questo approccio per il fatto che, a prescindere da valutazioni squisitamente giuridiche che non ci competono, per una volta la logica prevale sulla esigenza di gettito. Insomma, dovrebbe essere finita l’era delle disposizioni “prenotate” o pilotate dall’Agenzia al solo fine di rendere più spediti gli accertamenti.
        Inoltre, non va sottovalutato il fatto che si ribadisce il principio che le presunzioni legali fanno paura solo quando sono ragionevoli, mentre restano sterili quando tale ragionevolezza manca; questo è un approdo davvero importante di cui dobbiamo fare tesoro, tanto per ribadire che gli accertamenti vanno fatti quando l’evasione non solo è presunta, ma è anche dimostrata, nei fatti o sulla base di ragionamenti che trovino nella esperienza quotidiana un effettivo riscontro.

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          Il tema della responsabilità del rappresentante fiscale in Italia di un soggetto estero è un tema sicuramente delicato.
          Con la sentenza n. 18759 del 17 giugno 2014, la Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione Finanziaria avverso la pronuncia della Commissione Tributaria Regionale, ha confermato il principio secondo cui il rappresentante fiscale ai fini Iva in Italia di un soggetto non residente nel territorio dello Stato è tenuto ad adempiere alla generalità degli obblighi connessi a tutte le operazioni imponibili, nessunO escluso, erisponde in solido con la società rappresentata relativamente a tali obblighi, ivi compresigli obblighi d’imposta.
          Il caso oggetto della sentenza qui in commento attiene ad una vicenda molto complessa la quale verteva su di una grave contestazione di frode fiscale con l’utilizzo di fatture soggettivamente inesistenti.
          L’Amministrazione Finanziaria, in forza delle indagini compiute, provvedeva quindi adaccertare nei confronti del rappresentante fiscale in Italia della società estera coinvolta nella vicenda delle maggiori imposte dirette ed una maggiore Iva a fronte, appunto, di costi ritenuti non deducibili, di un’omessa tassazione di ricavi ed un’Iva ritenuta non detraibile.
          Il rappresentante fiscale eccepiva quindi nel contenzioso che nella propria veste non gli potevano essere addebitati fatti omissioni o commissivi imputabili alla società rappresentata ed amministra tata da altri soggetti.
          Dal testo della sentenza della Cassazione emerge che nei primi due gradi di giudizio era stato riconosciuto che la responsabilità del rappresentante fiscale non poteva essere estesa sino ad includere irregolarità commesse dalla società rappresentata ai fini delle imposte dirette, in quanto detta responsabilità è stata introdotta normativamente solo per quanto concerne gli obblighi Iva e non per quanto attiene ad un’eventuale omessa contabilizzazione di ricavi: un aspetto che, peraltro, dovrebbe sottendere l’eccepita esistenza in Italia di una stabile organizzazione della società estera.
          La sentenza della Cassazione, nell’accogliere una delle eccezioni sollevate dalla Amministrazione ricorrente, sembra invece richiamare una presunta responsabilità più vasta del rappresentante fiscale del soggetto estero nominato ai sensi dell’articolo 17 del D.P.R. 633/1972, laddove si rivolge ad una nozione apparentemente omnicomprensiva di“obblighi di imposta” da adempiere per conto del soggetto rappresentato.
          La giurisprudenza richiamata nella sentenza in commento (Cassazione, n. 7672/2012 e n. 15848/2004), pare però riferirsi sempre esclusivamente al comparto dell’Iva, e quindi non autorizzare ad una estensione della responsabilità del rappresentante fiscale del soggetto estero anche all’ambito delle imposte sul reddito.
          Ai sensi del citato articolo 17 del D.P.R. 633/1972, infatti, il rappresentante fiscale risponde in solido con il soggetto rappresentato relativamente agli obblighi Iva.
          La stessa Cassazione afferma che è dal mandato che deve essere desunta la responsabilità del rappresentante fiscale, in quanto non esiste un principio o una norma che consenta in via generale di considerare il rappresentante fiscale come responsabile, in solido col rappresentato, di tutte le operazioni e di tutte le violazioni commesse a partire dall'inizio dell'attività.
          Il rappresentante fiscale è responsabile, ad esempio, in caso di inadempimento degli obblighi di conservazione dei documenti, ma secondo la disciplina di cui al Decreto Iva.
          Anche il tenore letterale della norma che fa un riferimento agli "obblighi ed i diritti derivanti dalla applicazione delle norme in materia di imposta sul valore aggiunto" deve ritenersi, secondo la precedente giurisprudenza di Cassazione, riferibile solamente alle operazioni Iva ed agli obblighi ad essa connessi.

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            Come di consueto, l’Agenzia delle Entrate, con la circolare n. 25/E del 6 agosto 2014, ha ufficializzato l’indirizzo che gli Uffici devono seguire nell’attività di contrasto all’evasione e all’elusione fiscale in merito al periodo di imposta 2014.
            Per quanto riguarda il comparto agricolo, l’Agenzia anticipa come l’azione di controllo sarà focalizzata “tenendo conto prioritariamente delle imprese che svolgono le c.d. “attività connesse (manipolazione, commercializzazione e trasformazione) aventi ad oggetto prodotti agricoli acquisiti prevalentemente da terzi.”, nonché le attività agrituristiche che troppo spesso nascondono vere e proprie attività di ristorazione.
            Rimandando ad altro intervento l’analisi delle caratteristiche richieste agli agriturismi per essere considerati come tali, in questa sede analizziamo le caratteristiche che debbono avere le attività connesse per poter fruire del regime di tassazione agevolato, consistente, come ben noto, nella tassazione quale reddito agrario ex articolo 32 Tuir e quindi su base catastale.
            Ai sensi dell’articolo 32, comma 2, lettera c) Tuir si considerano attività agricole connesse le attività di cui all’articolo 2135, comma 3 codice civile dirette rispettivamente alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione, a prescindere dal loro effettivo esercizio sul terreno, di prodotti che vengono ottenuti prevalentemente dalle attività agricole per eccellenza e quindi dalla coltivazione del fondo, dalla silvicoltura e dell’allevamento degli animali.
            Punto di partenza è che dette attività siano svolte da un imprenditore agricolo.
            Rispettato questo prerequisito soggettivo, è necessario che le attività abbiano a oggetto prodotti ricompresi tra quelli previsti in un decreto ministeriale emanato con cadenza biennale e che sia rispettato il requisito della prevalenza.
            Sul punto l’Agenzia delle Entrate se con la Circolare n. 44/E/2002 aveva ammesso l’acquisto e utilizzo di prodotti da soggetti terzi “al fine di migliorare la qualità del prodotto finale e di aumentare la redditività complessiva per l’impresa agricola …”, con la successiva Circolare n. 44/E/2004 ha ulteriormente allargato il perimetro di azione ammettendo l’approvvigionamento presso terzi “al fine di ottenere anche un mero aumento quantitativo della produzione e un più efficiente sfruttamento della struttura produttiva” nonché “per un miglioramento della gamma di beni complessivamente offerti dall’impresa agricola, sempreché i beni acquistati siano riconducibili al comparto produttivo in cui opera l’imprenditore agricolo (ad esempio, allevamento, ortofrutta, viticoltura, floricoltura)”.
            Per rendere meglio i concetti, ipotizziamo un viticoltore che procede all’acquisto di uve presso terzi, egli effettuerà miglioramento:
            • qualitativo se acquista uva da taglio;
            • quantitativo se acquista uva per aumentare la produzione complessiva e
            • di gamma se l’uva acquistata è destinata alla produzione di ulteriori tipologie di vini


            Il tutto, ovviamente, nel rispetto della prevalenza delle uve prodotte dalla coltivazione del terreno.
            Riassumendo la prassi succedutasi nel tempo, si può concludere che, è ammesso l’acquisto di prodotti presso terzi ai fini di un miglioramento:
            • nella qualità,
            • nella quantità e
            • nella gamma
            • di prodotti offerti.


            In ragione del fine per cui l’imprenditore agricolo, perché bisogna sempre essere tali, procede all’approvvigionamento presso terzi, differente sarà la modalità di verifica del rispetto della prevalenza.
            Infatti, al fine della determinazione della prevalenza è necessario differenziare la metodologia di calcolo a seconda della casistica:
            1. nel caso di miglioramento quantitativo e qualitativo si dovrà effettuare un confronto in termini quantitativi fra i prodotti ottenuti dall’attività agricola principale ed i prodotti acquistati presso terzi;
            2. in ipotesi di un miglioramento della gamma dei prodotti offerti il confronto dovrà effettuarsi in termini di valore normale dei beni stessi, intendendo per valore normale quello definito dal legislatore tributario all’articolo 9, comma 3 Tuir.


            In caso di mancato rispetto del requisito della prevalenza, se oggetto delle attività connesse sono prodotti di cui al decreto ministeriale soprarichiamato, fino al raggiungimento del limite, il reddito sarà determinato catastalmente, mentre per l’eccedenza, la determinazione avverrà secondo le regole tipiche del reddito di impresa di cui all’articolo 56 Tuir.
            Nella differente ipotesi di produzione di prodotti non rientranti nella tabella ministeriale, il reddito sarà integralmente ricondotto tra quelli di impresa e determinato secondo le regole ordinarie, non essedo applicabile la previsione di tassazione forfettaria di cui al successivo articolo 56-bis Tuir, previsto per i prodotto non rientranti nella tabella ma “ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali”.

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              Sul tema della tassabilità ai fini delle imposte dirette del reddito diverso, secondo l’articolo 67 del D.P.R. 917/1986 c.d. Tuir, generato dalla cessione di un fabbricato che risulti dall’atto di vendita destinato alla demolizione, si pronuncia per la prima volta laCorte di Cassazione con due decisioni, la sentenza n.4150 del 21/02/2014 e la sentenza n. 15631 del 09/07/2014 che esprimono un orientamento favorevole al contribuente.La Direzione Centrale dell’Agenzia delle entrate nella Risoluzione 395/E del 22.10.2008 ha affermato che la cessione da parte di un privato di un fabbricato destinato alla demolizione configura dal punto di vista delle imposte dirette una cessione di area edificabile con conseguente emersione di plusvalenze tassabili.Secondo tale interpretazione il reale oggetto della cessione sarebbe da individuarsi nell’area di sedime del fabbricato ceduto e nella connessa potenzialità edificatoria dello stesso stante la perdita di valore dell’immobile destinato alla demolizione.La tesi delle Entrate è censurabile poiché oltre a travolgere la natura giuridica dell’atto per quello che ne costituisce l’oggetto, con quanto ne consegue in termini di incertezza sul diritto applicabile, presenta profili di contraddittorietà.La demolizione di un fabbricato non è sempre destinata a tradursi in una nuova costruzione, ben potendo concretizzarsi in una ristrutturazione edilizia, configurabile quando alla demolizione di un manufatto preesistente faccia seguito la fedele ricostruzione: la “fedeltà” consegue al rispetto sia del volume che della sagoma preesistenti.Un’ulteriore censura riguarda l’insanabile contraddizione che l’adesione alla stessa genererebbe all’interno del sistema impositivo, tra tassabilità ai fini IVA ed ai fini delleimposte dirette della medesima fattispecie: non si può infatti considerare un atto di cessione, che è un atto unico, cessione di area ai fini delle imposte dirette e cessione di fabbricato ai fini delle indirette.Nella prima fattispecie all’esame della Cassazione l’oggetto della cessione consisteva in uncapannone ad uso commerciale sito su un terreno avente capacità edificatoria. Secondo l’interpretazione proposta dall’Ufficio, l’art. 67 del Tuir nel prevedere la tassabilità dellaplusvalenza realizzata tramite la cessione di terreni "suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione", ricomprende la cessione non solo di terreni "nudi" ma anche di quelli che, pur essendo edificati, conservavano integra la loro capacità edificatoria in base alle previsioni del Piano Regolatore Generale.Nel dirimere la questione la Corte applica una interpretazione letterale della norma in contesto e ritiene preminente il dato reale che consiste nell’oggetto della cessione come individuato dal catasto al momento della vendita, sostenendo che “in materia di imposta sui redditi, sono soggette a tassazione separata, quali "redditi diversi", le "plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione", di conseguenza, non possono rientrare tra le stesse le cessioni aventi ad oggetto non un terreno "suscettibile di utilizzazione edificatoria" ma un terreno sul quale insorge un fabbricato, e che quindi è da ritenersi già edificato”.La Corte afferma inoltre che “a nulla rileva che il capannone insorga su terreno che abbia una ulteriore potenzialità edificatoria, o che in base a non oggettivamente riscontrate intenzioni delle parti, il capannone medesimo sia stato destinato alla demolizione”.Nella pronuncia del luglio 2014 la Corte accoglie le doglianze della parte privata che aveva proposto ricorso avverso la pronuncia della Commissione tributaria regionale che aveva accolto la tesi dell’Amministrazione.In tale sentenza la Corte di Cassazione sottolinea la finalità della normatesa inequivocabilmente ad assoggettare a prelievo fiscale la manifestazione di forza economica conseguente "all'avvenuta destinazione edificatoria in sede di pianificazione urbanistica" di terreni ovvero, in altri termini, ad assoggettare ad imposizione la plusvalenza che … scaturisce non "in virtù di un'attività produttiva del proprietario o possessore, ma per l'avvenuta destinazione edificatoria in sede di pianificazione urbanistica" dei terreni”.La pronuncia ribadisce l’applicabilità della norma a terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria con esclusione di quelli sui cui insorge un fabbricato e che sono da ritenersigià edificati ed insiste sulla rilevanza dell’oggetto della compravendita che deve essere individuato sulla base di elementi oggettivi e non sulla base di presunzioni derivate daelementi soggettivi, interni alla sfera dei contraenti, e, soprattutto, la cui realizzazione èfutura, eventuale e rimessa alla potestà di soggetto diverso (l'acquirente) da quello interessato dall'imposizione fiscale.

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                il sito è quello di euroconference.....(li potete trovare altro ancora)

                Vi ho fatto una cernita di articoli in materia di accertamento per il vostro esame...annotate quello che ritenete appropriato alle vostre dispense...

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                  https://www.shabex.ch/it/co/exc/odon....018.716-0.htm

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                    stick che truv..

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                      http://www.ilfattoquotidiano.it/2016...tiera/2479003/

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                      Sto operando...
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