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concorso agenzia delle entrate 2015 - 892 posti per funzionari amministrativi

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    L’articolo 5, comma 3, del Decreto crescita ed internazionalizzazione (D.Lgs. n.147/2015) contiene una norma di interpretazione autentica ai fini delle imposte dirette e dell’Irap secondo cui l’esistenza di un maggior corrispettivo derivante dalla cessione di un immobile, una azienda od un diritto reale sugli stessi beni, non può essere presuntosoltanto sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale.L’obiettivo è quello di dirimere una questione su cui si è acceso un forte contrasto non solo tra l’Agenzia delle entrate e la dottrina ma anche all’interno della stessa Cassazione.L’ambito di applicazione della novella normativa riguarda:
    • le cessioni di immobili (sia fabbricati che terreni, a prescindere che gli stessi siano suscettibili di essere edificate o meno);
    • le cessioni di aziende;
    • la costituzione e il trasferimento di diritti reali su immobili o aziende.

    Essa di fatto rende più difficili le contestazioni dell’Amministrazione finanziaria in relazione a:
    • specifiche poste del reddito ai fini delle imposte dirette. Il riferimento è agli articoli 58 (plusvalenze per imprenditori e società soggetti Irpef), 68 (plusvalenze nell’ambito dei redditi diversi), 85 (ricavi per imprenditori soggetti Ires) e 86 (plusvalenze patrimoniali per imprenditori soggetti Ires) del Tuir;
    • il valore della produzione ai fini Irap. In questo caso il riferimento è agli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 D.Lgs. 446/1997.

    In particolare, il dettato normativo è il seguente.
    Art.5, comma 3, D.Lgs. n.147/2015 – G.U. n.220 del 22 settembre 2009
    3. Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5-bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell'imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 , ovvero ai fini delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347”.
    Occorre precisare che la nuova disposizione si limita ad evitare ogni tipo di automatismo accertativo secondo cui il maggior valore dichiarato ai fini dell’imposta di registro, ipotecaria o catastale possa costituire di per sé una prova autosufficiente per la rideterminazione al rialzo del valore del corrispettivo.Pertanto, non sarà più possibile un accertamento fondato unicamente sulla differenza tra valore e corrispettivo.Tuttavia, si deve ancora ritenere legittimo un accertamento fondato, sia sulla differenza tra valore e corrispettivo, sia su altre evidenze quali un chiaro comportamento antieconomico assunto dal cedente oppure un mutuo richiesto da parte dell’acquirente in misura superiore rispetto all’ammontare del corrispettivo.Per quanto riguarda la decorrenza, sembra pacifico ritenere che la novella legislativa abbia valenza retroattiva. Ne deriva che la stessa dovrebbe avere effetto non solo per le transazioni future aventi ad oggetto immobili ed aziende, ma anche per quelle avvenute prima della relativa pubblicazione in Gazzetta Ufficiale per le quali siano ancora pendenti contestazioni (avvisi di accertamento da impugnare) oppure giudizi tributari. Diversamente, la norma non abbraccia le transazioni per le quali è stata emessa una sentenza sfavorevole passata in giudicato.La tesi che porta a qualificare la norma come norma di interpretazione autentica si basa sulle seguenti considerazioni:
    • l’utilizzo nel testo della formulazione “… si interpretano nel senso che …”;
    • le affermazioni contenute nell’audizione al Senato - del 19 maggio scorso - della Direttrice dell’Agenzia delle entrate, ove si descrive l’intervento come norma di interpretazione autentica;
    • il fatto che il legislatore non abbia stabilito una decorrenza specifica, a differenza di altre norme introdotte dal medesimo decreto legislativo.

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      Sono ancora diffusi i casi in cui l'Amministrazione finanziaria procede all'accertamento induttivo delle imposte sui redditi d'impresa pervenendo ad una ricostruzione extra-contabile del reddito, secondo i presupposti e le modalità contenute nell’art. 39, co.2, del DPR 600/73. È utile pertanto riprendere gli aspetti generali di tale tecnica accertativa.Tralasciando le fattispecie aggiunte in un secondo momento, e riferite all’infedeltà dei dati relativi agli studi di settore, la tipologia di accertamento in questione può avere luogo:
      • quando il reddito d'impresa non è stato indicato nella dichiarazione;
      • quando da verbali di ispezione risulta che il contribuente non ha tenuto o ha comunque sottratto all'ispezione una o più delle scritture contabili obbligatorie, ovvero quando le scritture medesime non sono disponibili per causa di forza maggiore;
      • quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate, ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute, da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica.

      L’impianto normativo dell’art. 39 del DPR 600/73 fissa, quindi, in maniera espressa, dettagliata e tassativa le condizioni che giustificano l'accertamento induttivo. L’elemento che accomuna i presupposti dell'accertamento in commento, è costituito dallainutilizzabilità dell'intero o di buona parte dell'impianto contabile del contribuente, vuoi per l'inesistenza del medesimo, vuoi per la sua indisponibilità, vuoi, infine, per l'inaffidabilità delle scritture contabili anche causata da comportamenti omissivi attribuibili al contribuente. In presenza di siffatte condizioni, il legislatore ha autorizzato gli Uffici accertatori a ricostruire il reddito d'impresa senza dovere ottemperare alla necessaria modifica od integrazione della rappresentazione contabile fornita dal contribuente (che costituisce il tipico accertamento contabile ex art. 39, co.1, DPR n. 600/73).I criteri più diffusi utilizzati dagli Uffici, in funzione delle caratteristiche dei soggetti interessati e delle attività svolte, sono quelli che fanno riferimento:
      • a percentuali di ricarico, determinate sulla base del rapporto di ricavi dichiarati ed acquisti registrati in contabilità in relazione alla qualità ed alla natura dei prodotti commercializzati;
      • a percentuali di produttività dei macchinari;
      • al numero dei dipendenti;
      • ai consumi di materie prime.

      Nel nostro ordinamento alle scritture contabili è affidato il compito di rispecchiare l'attività dell'azienda e, fino a prova contraria, è presente anche ai fini fiscali un concetto implicito di presunzione di correttezza delle stesse. Ne consegue che l'imprenditore, tenendole regolarmente, fornisce una prova generale della congruità dei fatti fiscalmente rilevanti da esso posti in essere.Dopo aver definito l’ambito dei presupposti oggettivi dell'accertamento induttivo, occorre ora considerare nello specifico se l’Ufficio abbia la possibilità di ricorrervi anche in presenza di una contabilità formalmente corretta, conservata secondo le vigenti disposizioni di legge, ma comunque inattendibile nella sostanza. In altri termini, si intende verificare se, qualora ogni adempimento contabile sia correttamente soddisfatto, la sola via percorribile da parte dell’Amministrazione Finanziaria rimanga l'accertamento analitico, ossia la verifica delle singole voci presenti nella determinazione del reddito d'impresa, individuando una ad una le operazioni di rettifica da apportare alla dichiarazione senza poter ricorrere ad altre tecniche. Molteplici interventi giurisprudenziali sembrano ormai legittimare la rettifica del reddito d'impresa con metodo induttivo, anche in presenza di una contabilità riconosciuta formalmente regolare, quando inesattezze, falsità e/o manomissioni contabili siano riscontrate in maniera certa nel corso dell’attività istruttoria e di indagine dell’Amministrazione Finanziaria.Impostazione giurisprudenziale confermata anche dalla Suprema Corte (Cass. 21 novembre 2001, n. 14700) la quale ha ribadito che, anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, è consentito procedere alla rettifica della dichiarazione dei redditi secondo ilmetodo induttivo purché, in ogni caso, l'accertamento risulti fondato su presunzioni assistite dai requisiti di precisione, gravità e concordanza, di cui all'art. 2729 c.c., e desunte da dati di comune esperienza.L'accertamento in questione puntava alla dimostrazione di un’inattendibilità sostanziale della contabilità mediante la ricostruzione indiretta dei ricavi di un'azienda di ristorazione basandosi, tra gli altri elementi, sui costi e sulla quantità di merce acquistata, sul consumo di energia elettrica, sul numero dei dipendenti, sul costo della forza lavoro, e così via. Lacondivisibile impostazione della Cassazione, nel non negare agli Uffici fiscali il potere di procedere ad accertamenti e rettifiche anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, vi pone nel contempo un limite, delimitando il potere di rettifica a riscontri non basati su mere presunzioni semplici ma esclusivamente su ipotesi fortemente indiziarie. Solo in questo modo l'inattendibilità delle scritture contabili è dimostrabile al di là di ogni ragionevole dubbio e solo in questo modo è possibile vincere la presunzione di correttezza delle stesse.Il legislatore ha disciplinato l'argomento con l'art. 39, co. 1, lett. d) del DPR 600/73 (accertamento analitico-induttivo), che indica come la prova possa emergere anche dacostruzioni presuntive purché gravi, precise e concordanti. La norma, infatti, prevede la facoltà per l’Amministrazione Finanziaria di presumere ricavi e corrispettivi anche in presenza di una contabilità completa e correttamente tenuta dal punto di vista formale, allorché risultino incongruenze fra il reddito dichiarato e quello fondatamente desumibile dall’andamento del settore di riferimento dell’attività svolta. Nell'accertamento dellacongruità del reddito d'impresa dichiarato dagli imprenditori, l’Amministrazione finanziaria utilizza frequentemente percentuali medie di ricarico dei prodotti destinati alla commercializzazione al fine di ricostruire indirettamente i ricavi presuntivamente conseguiti.Sotto il profilo operativo, dopo avere rilevato i prezzi al pubblico dei prodotti esposti, o dopo aver rilevato gli stessi dalle fatture di vendita, vengono individuati i loro specifici costi di acquisto cercando di estendere la ricerca di queste informazioni alla totalità, o alla maggior parte, delle tipologie di prodotti trattati. Allo stesso tempo vengono rilevate lescorte, per poi procedere successivamente ad un riscontro con i relativi carichi e scarichiderivanti dalle fatture e giungere così ad una valorizzazione quantitativa e qualitativa della merce giacente e della merce venduta.Con tale ricerca sul campo verrà calcolato il c.d. costo del venduto per singola categoria merceologica sul quale applicare le percentuali di ricarico desunte dal confronto tra i prezzi di acquisto ed i prezzi di vendita rilevati dai verificatori all’atto dell’accesso. L'intento di tale ricerca sostanziale è quella di confrontare con quanto risulta dai libri contabili l’attendibilità dei dati dichiarati. Il limite di legittimità dell'utilizzo di percentuali di ricarico predefinite per settore merceologico utilizzate dall'Ufficio per contestare i dati mostrati in dichiarazione dall'impresa è molto labile e la giurisprudenza, in diversi casi, ha sancito l’illegittimità della rettifica delle scritture contabili da parte dell'Ufficio sulla base di elementi e di dati generici non direttamente e specificamente riferibili all'impresa in verifica.

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        Originariamente inviato da strelizia Visualizza il messaggio
        Puoi dire se e' giusto?...
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          Si vivacizza la quantità di pronunce giurisprudenziali in tema di società di comodo ed al novero se ne aggiunge una pregevole, rilasciata dai giudici meneghini.Ci riferiamo alla sentenza della CTR di Milano n. 2068 depositata il 18-05-2015, il cui testo è stato diffuso in questi giorni. Il caso analizzato è davvero frequentemente riscontrabile nelle casistiche che si rinvengono negli studi professionali.Una società immobiliare acquista un terreno agricolo, ritenendo che sul medesimo si possano effettuare speculazioni edilizie a seguito di possibili mutamenti del piano regolatore. Per effetto di cambiamenti sopravvenuti, invece, tali modifiche non vengono realizzate e, per conseguenza, la speculazione si rivela impossibile.Rimane in carico alla società un bene dall’ingente valore economico che, per effetto dell’arido meccanismo di funzionamento del regime delle società di comodo, determina la richiesta di altrettanto ingenti volumi di ricavi che, ovviamente, non vengono prodotti.L’agenzia delle entrate parte con l’accertamento e la CTP di Lecco conferma la bontà del suo operato, trascurando la valutazione delle tesi difensive della società.I giudici della CTR di Milano, invece, riconoscono l’insufficienza della motivazione dell’appellata sentenza e, a parere di chi scrive, ben cristallizzano la corretta chiave interpretativa del fenomeno delle società di comodo: “Va innanzi tutto rilevato che l'ufficio non ha mai indicato, pure a fronte di precise argomentazione della controparte, quali fossero in concreto le finalità elusive che avrebbero indotto i soci della XXX a costituire una società immobiliare al solo fine di intestarle un terreno agricolo mantenuto incolto fino alla cessione dello stesso in comodato gratuito”.Ed ancora, ben chiarendo che non si tratta di un inciso senza significato, ben chiariscono che “le finalità antielusive che hanno determinato il Legislatore alla disciplina più sopra citata erano chiare nel senso di penalizzare comportamenti astrattamente fraudolentidiretti a dissimulare beni (in genere di lusso) utilizzati da persone che, pur avendo la disponibilità del bene, non ne figuravano proprietari attraverso intestazioni fittizie a persone giuridiche o fisiche che rappresentavano uno schermo con finalità chiaramente elusive”.Appare allora chiaro che:
          • se una società acquista dei beni che sono utilizzati (in modo più o meno palese) dai soci per finalità personali (oppure, potremmo spingerci ad affermare con qualche titubanza, sono astrattamente idonei per tale utilizzo e non si è in grado di provare il contrario) il regime delle società di comodo rappresenta un sistema (grezzo) per contrastare tale fenomeno;
          • se una società acquista dei beni per destinarli alla attività e, per qualsiasi motivazione, non riesce nel proprio intento, non deve essere aggredita con il predetto sistema che presume la formazione di ricavi, proprio per il fatto che manca qualsiasi pericolosità nella struttura azienda. Infatti, “la ratio di tale norma non giustifica comunque il riferimento alla società di comodo ed alla relativa disciplina tutte le volte che l'operatività della società sia determinata da eventi esterni che ne paralizzino le finalità statutarie ed operative posto che, in tali casi, vengono meno quelle finalità fraudolente coltivate attraverso il mancato assolvimento delle dovute imposte”.

          Certo è che risulta indispensabile giustificare il cattivo andamento dell’iniziativa (e qui emerge con chiarezza il problematico tema delle modalità con cui convincere l’amministrazione anche in sede di interpello preventivo).Nel caso particolare il comportamento descritto ha convinto i giudici (“… emerge dalla documentazione richiamata dall'appellante come credibile la motivazione che ha indotto a suo tempo i soci alla costituzione della società e poi all'acquisto di un terreno …”) in quanto:
          • l’acquisto del terreno agricolo è avvenuto ad un prezzo molto superiore a quello di mercato per terreni agricoli nella stessa Zona;
          • era in stato avanzato il procedimento amministrativo per la edificabilità in edilizia civile di quel terreno, progetto poi naufragato negli anni successivi per il mutato indirizzo dell'amministrazione comunale;
          • nessun vantaggio era comunque derivato, né poteva derivare, in base alla normativa antielusiva ai soci della società;
          • tale pretesa operazione sarebbe qualificabile unicamente come un pessimo affareche avrebbe realizzato per i soci una perdita senza alcun beneficio fiscale in quanto il progetto edificatorio sarebbe nel tempo naufragato;
          • sono state avanzate ripetute istanze all'amministrazione comunale che le ha sempre disattese, tanto da costringere la società a un ricorso la TAR Lombardia nel 2014 contro l'amministrazione stessa.

          Da tali circostanze, dunque, i Giudici derivano che:
          • “è credibile che la immobiliare avesse l'intento (peraltro coerente col proprio statuto) di costruire su quel terreno; per il quale evidentemente erano sorte aspettative poi deluse”;
          • “il contenzioso in atto con l'amministrazione comunale rende evidente che l'operatività della società è stata impedita da provvedimenti dell'autorità amministrativa comunale con propri atti la cui legittimità non è oggetto di scrutinio in questa sede ma non da finalità elusive mai chiarite dall'Ufficio”;
          • “nessun rilevo ha la questione della riclassificazione del bene” (presumibilmente da immobilizzazione a bene merce, anche se la questione ben non si deduce dalla sentenza in commento) “riguardo alla già citata carenza di finalità elusive”.

          Quindi, un cattivo affare non dovrebbe preoccupare, in un paese normale, l’amministrazione finanziaria, bensì unicamente le tasche del contribuente che ci rimette risorse proprie.Se tale approccio dovesse consolidarsi, sarebbero davvero minime le preoccupazioni di tutte le immobiliari che, negli ultimi anni, si sono confrontate con le note difficoltà di piazzamento sul mercato di immobili in vendita o locazione; ovviamente, non sempre è così facile, come nel caso in analisi, fornire adeguate giustificazioni.Salutando con favore pronunce di questo tipo, che speriamo siano sempre più numerose, si disinnescherà il timore per il regime delle comodo, ripristinando un po’ di logicità che è certamente l’elemento di cui maggiormente difetta il nostro sistema tributario, spesso costruito sulle furberie di pochi, con danni che si riverberano sull’intera collettività.

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            Con la sentenza n. 12844 del 22 giugno 2015, i Giudici della Suprema Corte hanno avuto modo di ribadire il proprio convincimento sul fenomeno del c.d. transfer pricingdomestico” già chiarito con talune passate pronunce (v. sentenza n. 7716 del 27 marzo 2013, sentenza n. 17955 del 24 luglio 2013, sentenza n. 8849 del 16 aprile 2014).Dalla lettura della seppur succinta pronuncia de qua si può concludere che la disposizione relativa alla determinazione del valore normale deve essere applicata anche nelletransazioni infragruppo tra società entrambe residenti in Italia, ogni qualvolta il contribuente, con la fissazione di un prezzo fuori mercato, abbia un intento elusivo, e cioè miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta la tassazione più bassa, non solo per agevolazioni territoriali, ma anche a motivo della veste societaria qualora foriera di un più mite trattamento tributario.Infatti, seppur a seguito di una interpretazione strettamente letterale delle disposizioni in materie di prezzi di trasferimento previste ex art. 110, comma 7, del D.P.R. n. 917 del 1986, si evince che la norma è applicabile solo in casi di operazioni infragruppo con società dislocate in altri territori rispetto al territorio interno, sulla base della maieutica giurisprudenziale sopra riportata, si rammenta che per “assimilazione”, il c.d. valore normale deve essere applicato anche nelle transazioni infragruppo tra società aventi sede in Italia, c.d. transfer pricing “domestico”.Più specificatamente, a detta della Suprema Corte “per la valutazione a fini fiscali delle manovre sui prezzi di trasferimento interni, costituenti il c.d. “transfer pricing domestico”, va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 9, che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente. Ciò in applicazione del divieto di abuso del diritto, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d’imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.In punto di diritto si sottolinea che l’articolo 9, non è una norma dettata per le sole transazioni tra una società nazionale ed una estera, e questo lo si evince dalla stessa collocazione della norma tra le “disposizioni generali” applicabili in materia di imposte sui redditi, di cui al titolo I, capo I del D.P.R. n. 917 del 1986. Non a caso, infatti, l’articolo 110, commi 2 e 7 del decreto cit. rinvia al precedente articolo 9 secondo la tecnica normativa del rinvio recettizio ad una disposizione di carattere generale, da parte di una norma speciale che non prevede una disciplina specifica della fattispecie da regolare.A nulla vale poi lo “scudo” della riserva di legge in quanto, seppur il principio antiabusonon sia stato (ancora) codificato nel diritto interno, è bene chiarire che esso trova già le sue fondamenta nei dogmi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva.Inoltre, il principio antiabuso NON introduce nuovi tributi, piuttosto si traduce neldisconoscimento degli effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l’applicazione di norme fiscali.Contestualizzando il concetto di elusione nel perimetro dell’ordinamento tributario, con tale termine vengono generalmente identificate quelle condotte finalizzate ad evitare il perfezionamento dei presupposti dell’imposta e quindi l’insorgenza della relativa obbligazione tributaria. La previsione legale, in questo contesto, non viene violata (in maniera palese) ma semplicemente “aggirata”, sfruttando in maniera strumentale le lacune inevitabilmente esistenti nel sistema, ovvero, rappresentando una situazione divergente fra sostanza economica e forma giuridica.E che il fenomeno elusivo sia un fenomeno antico lo si evince anche da un passo delConsilium n. 135, di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), dove a proposito di una tassa di plateatico (imposta sull’occupazione di spazi e aree pubbliche) dovuta nell’antichità dai venditori di pelli che, con le loro mercanzie, occupavano il suolo pubblico, è stata definita “elusione” l’ipotesi di colui che, cercando di sottrarsi al pagamento dell’imposta, anziché mettere le mercanzie sulla strada o sulla piazza, le teneva sulle braccia.

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              I decreti attuativi della Legge Delega di riforma del sistema fiscale (legge 11-03-2014 n.23) spaziano in ambiti molto differenziati e contengono numerose disposizioni che possono incidere sulla operatività quotidiana dei professionisti; in particolar modo, appare denso di novità il c.d. decreto “crescita ed internazionalizzazione delle imprese”.Nell’attesa di verificare quale sarà (e, vista l’esperienza passata, quando verrà alla luce) la versione definitiva, appare utile segnalare una disposizione che attiene al legame esistente tra il concetto di “valore” e quello di “corrispettivo” nell’ambito tributario.Il solo fatto di evocare congiuntamente i due termini, fa subito venire alla mente le problematiche attinenti la cessione di immobili e/o di aziende, nell’ambito delle quali le parti potrebbero ben accordarsi per convenire lo scambio di un bene (che sia semplice o complesso, poco importa) ad un corrispettivo inferiore rispetto al valore. Ciò potrebbe accadere per svariate motivazioni, prima fra tutte l’esigenza immediata di liquidità del cedente, oppure l’esistenza di un particolare momento di ribasso delle quotazioni di mercato, sia pure non definitivo.L’esistenza di tali situazioni determina spesso la seguente situazione:
              • l’Amministrazione contesta la base imponibile (valore) ai fini delle imposte indirette (ad esempio, registro);
              • il contribuente valuta come non conveniente l’attivazione di un contenzioso e decide di aderire alla proposta, magari con il solo intento di ridurre l’importo delle sanzioni (normalmente la valutazione viene fatta dall’acquirente);
              • l’Amministrazione, sulla scorta del maggior valore definito, contesta al venditore (al ricorrere delle condizioni previste) una maggiore plusvalenza sulla cessione, sostenendo che il minor corrispettivo pattuito non sia credibile rispetto al maggior valore accertato.

              Che, sul versante teorico, i due concetti siano su due pianeti completamente differenti poco conta, tant’è che la Cassazione ha spesso avvalorato tale ricostruzione, sia pure introducendo alcuni paletti all’operato del fisco.Ecco che, su tale argomento, si riscontra, proprio nel decreto crescita ed internazionalizzazione un intervento contenuto nel comma 2 dell’articolo 5 dell’articolato in bozza.La norma prevede che: gli articoli 58, 68 e 86 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l'esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore dichiarato o accertato ai fini dell'imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero ai fini delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347.Da una prima lettura del testo, si potrebbe affermare (in senso ironico) che la disposizione è pienamente conforme alla rubrica della norma; infatti, si rinviene il carattere della “crescita” culturale per il solo fatto che la distinzione tra valore e corrispettivo è finalmente emersa, come pure si rinviene il carattere della “internazionalizzazione” nell’adeguamento del nostro ordinamento (e del pensiero di parte della giurisprudenza di legittimità) al basilare concetto in forza del quale, per poter contestare un maggior corrispettivo, risulterà necessario dimostrarne l’incasso o la pattuizione in misura maggiore rispetto a quella formalmente risultante dagli accordi.Anche l’incipit promette bene, introducendo una disposizione che ha tutto il sapore dellanorma interpretativa, come può desumersi dalla relazione tecnica di accompagnamento; ciò a prescindere dalle indicazioni presenti nei Dossier del Servizio Studi di Camera e Senato, dove invece si intenderebbe differire l’efficacia al periodo di imposta successivo a quello di entrata in vigore della norma, fraintendendo le prescrizioni dello Statuto dei diritti del contribuente.Dal punto di vista degli effetti pratici, si potrebbe affermare che:
              • in merito alle cessioni immobiliari, si conferma di fatto l’approdo cui erano già giunte la prassi e la giurisprudenza, escludendo un accertamento meramente fondato sulla definizione di un maggior valore ai fini delle imposte indirette (anche se numerosi uffici locali continuino a contestare in automatico la maggiore plusvalenza al cedente);
              • in merito ai trasferimenti d’azienda, invece, la modifica appare più pregnante, in quanto la prassi e la giurisprudenza tendevano a legittimare la rettifica, con un laconico calmiere consistente nella possibilità, per il contribuente, di dimostrare con ogni mezzo di prova la correttezza del proprio operato. Per conseguenza, il disallineamento (nel futuro) sarà sempre un indizio dal quale poter ricavare una possibile patologia, pur con l’onere, addossato all’Agenzia, di motivare quali possano essere (nel caso specifico) gli altri elementi che contribuiscono a rafforzare tale presunzione.

              Ancora una volta, dunque, pur salutando con parziale favore l’intervento, sorge una perplessità di fondo: ma davvero è necessaria una norma di interpretazione autentica per affermare un principio che appare sacrosanto?Forse poteva bastare un pizzico di logica e di tecnica in più, rispetto a quanto ad oggi riscontrato.Sotto altro aspetto, le novità in cantiere suggeriscono a tutti coloro che avessero delle controversie pendenti di resistere, nell’attesa del varo ufficiale della disposizione che, si ripete, non fa altro che attestare un concetto che, già oggi, dovrebbe ricavarsi da una corretta interpretazione delle norme.

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                Nel caso di ricezione di una cartella di pagamento le domande più ricorrenti: perché l’Agente per la riscossione chiede il pagamento di queste somme? dove ho sbagliato? Tali interrogativi, in alcune circostanze, rappresentano un vero e proprio enigma, soprattutto se a sfogliare la cartella di pagamento è un contribuente poco “allenato” a tali letture, in quanto leggendo tale documento è difficile capire l’eventuale errore commesso dall’ente impositore e se la pretesa avanzata è corretta.Con riferimento alla forma e al contenuto della cartella di pagamento, si ricorda che tali elementi devono uniformarsi alle disposizioni elencate nell'articolo 25 D.P.R. n. 602/73 e ai modelli approvati con decreto del Ministro delle Finanze, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. I commi 2 e 2-bis della citata disposizione normativa definiscono rispettivamente, il contenuto della cartella di pagamento, secondo cui:
                • essa deve essere redatta in conformità al modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze;
                • deve contenere “l'intimazione ad adempiere l'obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l'avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata” (comma 2);
                • deve anche contenere “l'indicazione della data in cui il ruolo è stato reso esecutivo” (comma 2-bis).

                Oltre a tali elementi, la cartella di pagamento deve contenere, altresì, a pena di nullitàl'indicazione del responsabile del procedimento di iscrizione a ruolo e l'indicazione del responsabile del procedimento di emissione e di notificazione della stessa cartella, aspetti facilmente individuabili nella lettura della cartella di pagamento. L’elemento che, invece, desta sempre le perplessità maggiori è la motivazione, ossia la risposta ai quesiti di cui sopra.Una delle ipotesi di dubbio maggiori è rappresentata dalle cartelle di pagamento emesse a seguito di controlli automatizzati. In tale circostanza, la motivazione della cartella di pagamento, quale elemento fondamentale di tale documento, acquista una rilevanza maggiore, posto che la pretesa è avanzata tramite la cartella stessa e non mediante un atto notificato in precedenza, quale l’avviso di accertamento.Un orientamento della Corte di Cassazione ritiene che la motivazione, anche nel caso delle liquidazioni automatiche, non debba essere particolarmente corposa, in quanto il ruolo è formato in base a dati indicati dal contribuente nella dichiarazione (su tale questione si veda le sentenze della Corte di Cassazione 6.5.2011 n. 10033 e Corte di Cassazione 31.3.2011 n. 7401).La sentenza della Corte di Cassazione n. 8934 del 17.4.2014 tuttavia ha mutato il precedente indirizzo, stabilendo che è illegittima la cartella che si limiti ad una motivazione “incomprensibile” quando non è stata preceduta da un atto prodromico. La questione presa in esame dai giudici della Corte di Cassazione riguardava una cartella di pagamento emessa in seguito al controllo automatizzato previsto dall’articolo 36-bis D.P.R. n. 600/73, con un richiamo in tale cartella allo stesso ruolo, ma senza alcuna informazione aggiuntiva o di completamento.I giudici di legittimità, rilevato che la pretesa riguardava il recupero di un credito di imposta, hanno stabilito che tale condizione di per sé avrebbe obbligato l’ufficio a precisare se le somme dovute derivassero dall’erronea contabilizzazione ovverodall’inesistenza dei presupposti per la spettanza, informazioni del tutto assenti nella cartella di pagamento oggetto di impugnazione. Sulla base di tali considerazioni, quindi, la citata sentenza della Corte di Cassazione a sostegno della propria decisione ha richiamato:
                1. la precedente pronuncia, la sent. n. 26330 del 16.12.2009, secondo cui la cartella esattoriale che non sia stata preceduta da un avviso di accertamento, deve essere motivata in modo congruo, sufficiente ed intellegibile;
                2. i principi di carattere generale indicati dalla L. 241/90 e recepiti in materia tributariadall’articolo 7 della L. 212/2000 (Statuto del contribuente), nella parte riferita alla motivazione degli atti dell’Amministrazione finanziaria.

                Sulla base di tali considerazioni, quindi, è utile affermare che il contribuente che riceve una cartella di pagamento deve disporre di sufficienti elementi per comprendere la posizione dell’ufficio in ordine alla somma richiesta, in caso contrario, è illegittima (in tal senso si veda anche la sentenza della Corte di Cassazione 8.2.2013 n. 3116). In conclusione, nel caso di controllo automatico, la cartella deve “contenere tutti gli elementi e la motivazione, necessari per far comprendere al contribuente le ragioni della pretesa e quindi per poter esercitare una efficace difesa” (in tal senso si veda la sentenza della Corte di Cassazione del 10.12.2012 n. 22500).A mero titolo esemplificativo si riportano di seguito alcune sentenze favorevoli a tale impostazione, in quanto:
                • mancava la data di consegna del ruolo (CTP di Napoli 16.11.2006 n. 517);
                • vi era la semplice indicazione degli importi da versare per omessi o carenti versamenti dovuti a seguito di controllo automatico, senza ulteriori spiegazioni (CTP di Treviso 22.12.2008 n. 111, CTP di Lecce 15.3.2010 n. 206 e CTP di Asti 12.4.2010 n. 44);
                • mancava l’indicazione del tasso di interesse e la determinazione delle sanzioni (CTP di Treviso 17.12.2008 n. 135 e CTP di Genova 7.11.2013 n. 229).

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                  Ma dobbiamo rispondere alle tue domande? Deve rispondere solo chi deve affrontare l'orale? Perché se rispondi hai l'esigenza di chiarire i quesiti affrontati...

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                    Le c.d. indagini finanziarie (o bancarie) non sono, da un punto di vista strettamente tecnico, un vero e proprio accertamento di carattere tributario, bensì rappresentanoun’attività amministrativa diretta all’acquisizione e all’utilizzo di dati, notizie e documentiche risultano da un rapporto – continuativo o anche occasionale – intrattenuto da un contribuente con un soggetto che, per semplicità, appartiene al “mondo finanziario”. Tale attività di indagine e raccolta è, naturalmente, svolta al fine di attivare un’eventuale accertamento di natura fiscale basato sui dati e sulle informazioni raccolte e riscontrante la sussistenza di eventuali redditi non dichiarati. Tale tipo di inquadramento delle indagini finanziarie trova conferma anche nella stessa nomenclatura dell’articolo 32 D.P.R. n. 600/1973 indicato come “Poteri degli Uffici”, a dimostrazione della sopra argomentata classificazione, così come dimostrato dal richiamo operato dalle diverse fonti normative di accertamento (articoli 38, 39, 40 e 41-bis del D.P.R. n. 600/1973, articoli 54 e 55 del D.P.R. n. 633/1972 e articolo 53-bis del D.P.R. n. 131/1986) allo stesso articolo 32 del D.P.R. n. 600/1973.Una delle domande che spesso ci si pone, nel momento in cui si viene a conoscenza di essere di fronte ad un’indagine finanziaria, è la semplice interrogazione di quale sia stato l’input che ha fatto finire il contribuente all’interno delle maglie di selezione dell’Amministrazione finanziaria, per l’effettuazione di un controllo “bancario”.Tralasciando la classica circostanza rappresentata da una costante opera di versamento di denaro contante nel c/c acceso presso un qualsiasi Istituto di Credito, le “dieci ipotesi classiche” che, anche sulla base delle indicazioni di cui al D.L. n. 201/2011 (Decreto Salva Italia), possono fare scattare la selezione del contribuente da sottoporre a controllo, mediante tale strumento di indagine, possono essere così elencate:
                    1. un’incongruenza dei dati finanziari rispetto ai dati reddituali, ossia quando l’ammontare degli accrediti eccede di gran lunga l’ammontare del reddito dichiarato dal contribuente in questione;
                    2. l’utilizzo esclusivo o frequente di operazioni “finanziarie” anomale, quali possono essere le c.d. operazioni extra contro (operazioni allo sportello), come, a mero titolo esemplificativo, il cambio assegni allo sportello di una banca senza il transito per il c/c bancario;
                    3. la sussistenza di un’incongruenza quantitativa tra le uscite finanziarie e le spese rilevate dall’Anagrafe tributaria, come, ad esempio, l’effettuazione di incrementi patrimoniali senza l’utilizzo dei canali finanziari;
                    4. un frequente e costante accesso del contribuente alle cassette di sicurezza detenute presso i locali di uno o più Istituti di credito;
                    5. l’effettuazione di frequenti e consistenti ricariche di carte di credito prepagate;
                    6. un consistente utilizzo del plafond annuale delle carte di credito;
                    7. l’assidua effettuazione di operazioni finanziarie, magari extra conto, da parte di un soggetto “formalmente” residente all’estero;
                    8. l’utilizzo frequente e in misura importante dei canali di money transfer;
                    9. le segnalazioni antiriciclaggio;
                    10. la segnalazione di reati penali dal puto di vista tributario.

                    La lista di cui sopra di certo non persegue l’obiettivo di essere esaustiva, tuttavia, permette di effettuare alcune riflessioni di carattere meramente operativo.Le ipotesi di cui ai punti 1 e 3 sono delle indicazioni di anomalia che, per certi aspetti, possono essere già rilevate mediante l’applicazione del “nuovo” redditometro e possono rappresentare a prima vista quelle situazioni di “evasione totale”. Tuttavia, non va dimenticato che il contribuente, tanto nel caso delle indagini finanziarie quanto in quello del redditometro, ha sempre la possibilità di dimostrare che le operazioni oggetto di contestazione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, hanno trovato riscontro nei rispettivi modelli dichiarativi o rappresentano le classiche somme di denaro costituenti redditi esenti.Con riferimento all’utilizzo dei money transfer (ipotesi di cui al numero 8 che precede), si ricorda che l’Agenzia delle entrate, con la nota 11 aprile 2013, ha chiarito che gli agenti esteri money transfer che svolgono la propria attività per conto di istituti di pagamento comunitari sono sottoposti alla disciplina di settore del paese in cui l’intermediario preponente ha ottenuto l’autorizzazione. Ne deriva, a parere dell’Agenzia, che, per il combinato disposto degli articoli 114-decies e 128-quater, comma 7, del Testo Unico Bancario, gli agenti esteri money transfer, pur operanti fisicamente sul territorio italiano,non sono tenuti ad iscriversi nella sezione speciale dell’albo degli agenti in attività finanziaria. Essi, invece, devono essere iscritti nel registro pubblico tenuto dalle Autorità del paese di origine, in cui viene data evidenza degli istituti di pagamento autorizzati, delle succursali e dei relativi agenti. Tuttavia, per il principio di territorialità, di cui al D.P.R. n. 605/1973, sono assoggettati agli obblighi comunicativi di natura tributaria anche i servizi di pagamento svolti in Italia da parte di agenti esteri di istituti di pagamento comunitari in regime di libera prestazione dei servizi.

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                      Con il Consiglio dei Ministri dello scorso 30 ottobre 2014 è stato approvato definitivamente il Decreto Legislativo attuativo dell’articolo 7 della Legge Delega fiscale n. 23 dell’11 marzo 2014, contenente disposizioni in materia di semplificazioni fiscali.Di rilevante impatto operativo è la previsione contenuta nell’articolo 28, comma 4, del suddetto decreto, ovvero la norma che interviene sulla disciplina dei termini per la notificadegli atti tributari alle società estinte, prevedendo, in particolare, che ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi, contributi, sanzioni ed interessi, “l’estinzione della società ha effetto trascorsi cinque anni dalla cancellazione dal Registro delle imprese”.In altri termini, in virtù delle nuove disposizioni, l’Amministrazione finanziaria avrà a disposizione cinque anni di tempo, a partire dalla data di cancellazione della società dal Registro delle Imprese, per notificare un eventuale avviso di accertamento delle imposte, ovvero una cartella esattoriale, ovvero ancora un qualunque altro atto impositivo di cui la società risulta essere la diretta destinataria.Per capire pienamente la portata della nuova norma, occorre chiarire l’attuale contesto normativo all’interno del quale la stessa va a innestarsi.La cancellazione della società dal Registro delle imprese, infatti, ha avuto, fino ad oggi, piena efficacia costitutiva, rappresentando, allo stesso tempo, condizione necessaria e sufficiente per poter considerare la stessa estinta a tutti gli effetti.Al riguardo un consolidato orientamento giurisprudenziale (in particolare, Cassazione SS. UU., sentenze nn. 4060, 4061 e 4062, del 22 febbraio 2010), sostiene che “a seguito della modifica apportata all’art. 2945 c.c., comma 2, dal D. Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, art. 4, entrato in vigore il primo gennaio 2004, la cancellazione dal registro delle imprese produce l’effetto costitutivo dell’estinzione irreversibile della società, anche in presenza di rapporti non definiti ed anche se è intervenuta in epoca anteriore all’entrata in vigore della nuova disciplina, […] (Cass. 15 ottobre 2008 n. 25192, 18 settembre 2007 n. 19347, 28 agosto 2006 n. 18618)”. Tale orientamento giurisprudenziale è stato ovviamente recepito dai giudici di merito: da ultima è da segnalare la Sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Caserta n. 7194/03/14 del 10 ottobre 2014 che, riprendendo la Sentenza della Cassazione n. 17564 del 18 luglio 2013, ha affermato che: “a decorrere dal primo gennaio 2004, ex art. 2495 c.c., la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese è contestualmente atto e momento in cui si individua e da cui decorre l’estinzione della persona giuridica. L’estinzione della società di capitali determina la successione dei rapporti attivi e passivi della persona giuridica in favore dei soci, i quali rispondono nei limiti della responsabilità patrimoniale che caratterizzava la loro partecipazione nella società in bonis, ovvero, limitatamente al patrimonio ricevuto al termine della liquidazione (soci limitatamente responsabili) o illimitatamente (soci illimitatamente responsabili). […] Appare dunque evidente che l’atto impugnato non poteva avere come destinatario una società non più esistente e questa conserva (in virtù di una fictio juris) la possibilità di stare in giudizio al solo fine di eccepire la circostanza”.I giudici della CTP di Caserta hanno, dunque, accolto il ricorso del contribuente, provvedendo all’annullamento dell’atto impugnato per difetto “ab origine” di legittimazione attiva.Con la nuova norma tutto cambierà, nell’ottica di una presunta semplificazione.E’ possibile cogliere la ratio della nuova norma leggendo la Relazione tecnica al Decreto, in cui viene sottolineato che la norma civilistica vigente, funzionale a garantire tempi brevi e certi della cancellazione e della realizzazione dei conseguenti effetti, rende di difficile realizzazione i controlli e le azioni di recupero fiscale, regolati da disposizioni che ne prevedono lo sviluppo e, a volte, l’avvio in tempi successivi a quelli previsti dall’articolo 2495 del Codice Civile per l’ “estinzione” della società”. Sempre nella Relazione si legge, inoltre, la poco convincente tesi per cui la nuova norma è“tesa ad evitare particolari turbative ai contribuenti, conseguenti alla concentrazione dei controlli nel periodo di scioglimento e liquidazione” e, soprattutto, si sottolineano esplicitamente gli “evidenti effetti anche sull’efficacia e l’economicità dell’azione amministrativa”.Di fatto, dunque, una vera semplificazione per l’azione accertatrice dell’Amministrazione finanziaria, ma sicuramente non per i contribuenti.

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