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concorso agenzia delle entrate 2015 - 892 posti per funzionari amministrativi

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    Originariamente inviato da ROL Visualizza il messaggio
    sottodamanda : il 5° comma dell’art. 109 D.P.R. n. 917/86 “…costituisce una presunzione legale relativa a sfavore del contribuente? ossia…il soggetto è tenuto a provare la sussistenza (inerenza qualitativa) e la congruità (inerenza quantitativa), a pena del disconoscimento dello stesso ai fini dichiarativi.? Oppure è una presunzione semplice con onere probatorio a carico esclusivamente dell’Amministrazione Finanziaria, cui spetta il compito i dimostrare la fondatezza circa l’ “an” ed il “quantum su elementi oggettivi e con elevato grado di sostenibilità circa il risultato presuntivo ottenuto nell’ambito delle “presunzioni qualificate” dovendo essere gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.).?


    sottodomanda (collegamento iva)……:i presupposti per l’IVA sono diversi e non vi è un concetto esplicito di inerenza….ed è allora possibile rendere indetraibile l’iva per costi non inerenti?

    Prima domanda: ho trovato un articolo e dopo averlo letto rispondo presunzione legale relativa a sfavore del contribuente

    http://www.fiscooggi.it/giurispruden...a-dellinerenza

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      Originariamente inviato da ROL Visualizza il messaggio
      sottodamanda : il 5° comma dell’art. 109 D.P.R. n. 917/86 “…costituisce una presunzione legale relativa a sfavore del contribuente? ossia…il soggetto è tenuto a provare la sussistenza (inerenza qualitativa) e la congruità (inerenza quantitativa), a pena del disconoscimento dello stesso ai fini dichiarativi.? Oppure è una presunzione semplice con onere probatorio a carico esclusivamente dell’Amministrazione Finanziaria, cui spetta il compito i dimostrare la fondatezza circa l’ “an” ed il “quantum su elementi oggettivi e con elevato grado di sostenibilità circa il risultato presuntivo ottenuto nell’ambito delle “presunzioni qualificate” dovendo essere gravi, precise e concordanti (art. 2729 c.c.).?


      sottodomanda (collegamento iva)……:i presupposti per l’IVA sono diversi e non vi è un concetto esplicito di inerenza….ed è allora possibile rendere indetraibile l’iva per costi non inerenti?

      Seconda domanda:

      Inerenza all’esercizio d’ impresa e detraibilità Iva. Orientamenti giurisprudenziali
      Antonio Paladino
      ******
      Il concetto di inerenza all’esercizio d’impresa (che lo si ricordi non è esplicitamente definito dal decreto Iva, ma lo si desume dalla lettura dell’art.19) e il relativo sorgere del diritto alla detrazione dell’imposta, è stato ed è tuttora strenuamente dibattuto e certamente in questa sede non si vuole dare un indirizzo definitivo, ma dare uno sguardo agli orientamenti giurisprudenziali, al fine di chiarificare le norme, evitando così un possibile defatigante contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria.
      L’art. 19 del Dpr 633/72 statuisce che per determinare l’imposta dovuta a norma del primo comma dell’art.17 o dell’eccedenza di cui al secondo comma dell’articolo 30, è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa.
      La formulazione della norma, considerata alla luce delle disposizioni originarie previste dall’art.5, punto 6 della legge di delega per la riforma tributaria 9 Ottobre 1971, n.825 (che stabiliva, come criterio direttivo, la detrazione dell’imposta "in dipendenza di atti relativi alla produzione e al commercio di beni e servizi imponibili"), indica chiaramente che opera la detrazione prevista quando vi sia correlazione tra attività esercitata dal soggetto passivo ed i beni e/o servizi acquistati, i quali perciò devono necessariamente inerire all’impresa, anche se non è richiesta la loro utilizzazione effettiva. Per inciso, la normativa comunitaria, (art.17, par.2 della VI direttiva), stabilisce che il diritto alla detrazione compete "nella misura in cui beni e servizi si utilizzano per porre in essere operazioni soggette ad imposta o alle stesse assimilate".
      La disposizione in esame riguarda, pertanto, tutti i beni dell’impresa, anche quelli non strumentali in senso proprio, purché destinati alle finalità della produzione o dello scambio nell’esercizio dell’attività dell’impresa.
      Affinché sia operabile la detrazione d’imposta, è condizione necessaria che i costi sostenuti, la cui imposta si dovrà detrarre da quella delle operazioni attive, per la determinazione dell’imposta dovuta o a credito, siano collegati all’esercizio d’impresa, e precisamente il cui utilizzo deve essere incardinato nell’ambito di un ciclo produttivo conducente a valle ad operazioni imponibili (Comm. Trib. Centrale n.2030 del 4.6.93, CTP Milano n.40 del 24.2.98). In tale decisione è pertanto chiaro l’orientamento dei collegi giudicanti: se il costo imputato non concorre a generare operazioni imponibili, non è inerente all’esercizio d’impresa e pertanto non è ammessa in detrazione la relativa Iva.
      Ai fini della detraibilità dell’imposta, l’onere di provare le circostanze di fatto rilevanti per il sorgere del cosiddetto diritto alla detrazione è a carico del soggetto che tale diritto, nell’ambito del computo dell’imposta, allega o comunque intende far valere, in applicazione alla regola generale posta dall’art.2697 C.C., del fatto giuridico da cui discende il suo preteso diritto, gli elementi costitutivi per l’esercizio del diritto, cioè che gli acquisti effettuati riguardino l’attività specifica oggetto dell’impresa nella loro destinazione concreta ed esclusiva. (Comm. Trib. Centrale n.3100 dell’11.6.97, Cass. Sen. n. 2762 del 14.3.98, Cass. Sen. 5981 del 19.5.92).
      Sovente, l’onere della prova può non incombere per evidenti ragioni sul ricorrente e quindi non è consentita l’inversione. Tale prova può ritenersi insita proprio nella natura stessa dell’attività e cioè nella complessità del genere di attività commerciale dell’impresa medesima (Comm. Trib. Centrale n.4 del 3.1.1992).
      Si è pertanto pervenuti ad inserire un ulteriore tassello: il bene su cui si opera la detrazione dell’imposta, deve avere un’esclusiva e concreta collocazione nel processo produttivo del contribuente. Concreta, poiché deve essere chiara e visibile la sua inerenza all’esercizio d’impresa, così da potersi dimostrare; esclusiva poiché l’utilizzazione di tale bene non può essere ovviamente confusa con fini estranei all’attività che si svolge.
      Sulla deducibilità dell’Iva relativa a beni e servizi suscettibili di utilizzazione promiscua manca tuttora, a livello comunitario, una disciplina comune. Disciplina che, in esecuzione al paragrafo 6 dell’art.17della VI Direttiva n.388/77, avrebbe già dovuto essere operativa da almeno un ventennio. E’ prassi consolidata che per i tali beni, va accertata caso per caso l’effettiva destinazione dei beni alle finalità dell’impresa in base alle prove offerte da chi alleghi la deducibilità (Comm. Trib. Centrale n.67 dell’8.1.1993, Comm. Trib. Centrale n. 6845 del 24.10.1990, Comm. Trib. Centrale n.5009 del 21.6.1991). Nel caso ci si trovi in presenza di una società, l’ambito di operatività dell’impresa deve essere valutato con riferimento a tutte le attività (anche quelle al momento non esercitate) indicate nell’oggetto sociale, in vista delle quali la società è stata costituita e al cui esercizio i soci sono tenuti a concorrere (Cass. Sen. n.14350 del 21.12.99).
      Inoltre, non è condivisibile la linea interpretativa che vede identificato un bene come "posto al servizio dell’impresa", e perciò, di riflesso, detraibile. In merito, la Cassazione con Sen. 10919 del 5.10.92 ha bocciato tale interpretazione, in quanto la stessa si palesa priva di concreta aderenza al dato normativo ed alla connotazione oggettiva del tributo in questione; il diritto alla detrazione presuppone un rapporto di inerenza dell’operazione all’esercizio dell’attività del soggetto passivo d’imposta con esclusiva relazione alla destinazione del bene all’impresa (nel caso di specie era stato detratto da parte di un impresa esercente il commercio all’ingrosso di alimentari, il costo per la costruzione di un campo da tennis per il relax dei propri dipendenti).
      Oltretutto, anche quando si invochi un’esigenza pratica di utilizzazione del bene per renderlo "inerente" all’esercizio dell’attività svolta (ad esempio un’autovettura), la stessa non costituisce prova (Comm. Trib. Centrale n.7799 del 16.11.1991).
      Da ultimo, sono sorti orientamenti reclamanti un innegabile diritto alla detrazione d’imposta scaturente dalla lettura dell’articolo 4, comma 2 del Dpr 633/72, così da correlarlo con il successivo art.19.
      Vediamo in dettaglio: "si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio d’impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società in nome collettivo, in accomandita semplice, dalle società per azioni e a responsabilità limitata…."
      Bisogna prestare attenzione, poiché, in forza della presunzione della norma citata, vanno ricomprese nell’esercizio d’impresa, con la conseguente detraibilità dell’iva assolta a monte, solo le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate dai soggetti societari, ma non anche gli acquisti, i quali rientrano nella disposizione prevista dall’art.19 (Comm. Trib. Centrale n.1983 del 24.5.93

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        Articolo datato...

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          Originariamente inviato da strelizia Visualizza il messaggio
          Prima domanda: ho trovato un articolo e dopo averlo letto rispondo presunzione legale relativa a sfavore del contribuente

          http://www.fiscooggi.it/giurispruden...a-dellinerenza

          questo credo sia l'orientamento dell'amministrazione.....

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            Originariamente inviato da strelizia Visualizza il messaggio
            Seconda domanda:

            Inerenza all’esercizio d’ impresa e detraibilità Iva. Orientamenti giurisprudenziali
            Antonio Paladino
            ******
            Il concetto di inerenza all’esercizio d’impresa (che lo si ricordi non è esplicitamente definito dal decreto Iva, ma lo si desume dalla lettura dell’art.19) e il relativo sorgere del diritto alla detrazione dell’imposta, è stato ed è tuttora strenuamente dibattuto e certamente in questa sede non si vuole dare un indirizzo definitivo, ma dare uno sguardo agli orientamenti giurisprudenziali, al fine di chiarificare le norme, evitando così un possibile defatigante contenzioso con l’Amministrazione Finanziaria.
            L’art. 19 del Dpr 633/72 statuisce che per determinare l’imposta dovuta a norma del primo comma dell’art.17 o dell’eccedenza di cui al secondo comma dell’articolo 30, è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa.
            La formulazione della norma, considerata alla luce delle disposizioni originarie previste dall’art.5, punto 6 della legge di delega per la riforma tributaria 9 Ottobre 1971, n.825 (che stabiliva, come criterio direttivo, la detrazione dell’imposta "in dipendenza di atti relativi alla produzione e al commercio di beni e servizi imponibili"), indica chiaramente che opera la detrazione prevista quando vi sia correlazione tra attività esercitata dal soggetto passivo ed i beni e/o servizi acquistati, i quali perciò devono necessariamente inerire all’impresa, anche se non è richiesta la loro utilizzazione effettiva. Per inciso, la normativa comunitaria, (art.17, par.2 della VI direttiva), stabilisce che il diritto alla detrazione compete "nella misura in cui beni e servizi si utilizzano per porre in essere operazioni soggette ad imposta o alle stesse assimilate".
            La disposizione in esame riguarda, pertanto, tutti i beni dell’impresa, anche quelli non strumentali in senso proprio, purché destinati alle finalità della produzione o dello scambio nell’esercizio dell’attività dell’impresa.
            Affinché sia operabile la detrazione d’imposta, è condizione necessaria che i costi sostenuti, la cui imposta si dovrà detrarre da quella delle operazioni attive, per la determinazione dell’imposta dovuta o a credito, siano collegati all’esercizio d’impresa, e precisamente il cui utilizzo deve essere incardinato nell’ambito di un ciclo produttivo conducente a valle ad operazioni imponibili (Comm. Trib. Centrale n.2030 del 4.6.93, CTP Milano n.40 del 24.2.98). In tale decisione è pertanto chiaro l’orientamento dei collegi giudicanti: se il costo imputato non concorre a generare operazioni imponibili, non è inerente all’esercizio d’impresa e pertanto non è ammessa in detrazione la relativa Iva.
            Ai fini della detraibilità dell’imposta, l’onere di provare le circostanze di fatto rilevanti per il sorgere del cosiddetto diritto alla detrazione è a carico del soggetto che tale diritto, nell’ambito del computo dell’imposta, allega o comunque intende far valere, in applicazione alla regola generale posta dall’art.2697 C.C., del fatto giuridico da cui discende il suo preteso diritto, gli elementi costitutivi per l’esercizio del diritto, cioè che gli acquisti effettuati riguardino l’attività specifica oggetto dell’impresa nella loro destinazione concreta ed esclusiva. (Comm. Trib. Centrale n.3100 dell’11.6.97, Cass. Sen. n. 2762 del 14.3.98, Cass. Sen. 5981 del 19.5.92).
            Sovente, l’onere della prova può non incombere per evidenti ragioni sul ricorrente e quindi non è consentita l’inversione. Tale prova può ritenersi insita proprio nella natura stessa dell’attività e cioè nella complessità del genere di attività commerciale dell’impresa medesima (Comm. Trib. Centrale n.4 del 3.1.1992).
            Si è pertanto pervenuti ad inserire un ulteriore tassello: il bene su cui si opera la detrazione dell’imposta, deve avere un’esclusiva e concreta collocazione nel processo produttivo del contribuente. Concreta, poiché deve essere chiara e visibile la sua inerenza all’esercizio d’impresa, così da potersi dimostrare; esclusiva poiché l’utilizzazione di tale bene non può essere ovviamente confusa con fini estranei all’attività che si svolge.
            Sulla deducibilità dell’Iva relativa a beni e servizi suscettibili di utilizzazione promiscua manca tuttora, a livello comunitario, una disciplina comune. Disciplina che, in esecuzione al paragrafo 6 dell’art.17della VI Direttiva n.388/77, avrebbe già dovuto essere operativa da almeno un ventennio. E’ prassi consolidata che per i tali beni, va accertata caso per caso l’effettiva destinazione dei beni alle finalità dell’impresa in base alle prove offerte da chi alleghi la deducibilità (Comm. Trib. Centrale n.67 dell’8.1.1993, Comm. Trib. Centrale n. 6845 del 24.10.1990, Comm. Trib. Centrale n.5009 del 21.6.1991). Nel caso ci si trovi in presenza di una società, l’ambito di operatività dell’impresa deve essere valutato con riferimento a tutte le attività (anche quelle al momento non esercitate) indicate nell’oggetto sociale, in vista delle quali la società è stata costituita e al cui esercizio i soci sono tenuti a concorrere (Cass. Sen. n.14350 del 21.12.99).
            Inoltre, non è condivisibile la linea interpretativa che vede identificato un bene come "posto al servizio dell’impresa", e perciò, di riflesso, detraibile. In merito, la Cassazione con Sen. 10919 del 5.10.92 ha bocciato tale interpretazione, in quanto la stessa si palesa priva di concreta aderenza al dato normativo ed alla connotazione oggettiva del tributo in questione; il diritto alla detrazione presuppone un rapporto di inerenza dell’operazione all’esercizio dell’attività del soggetto passivo d’imposta con esclusiva relazione alla destinazione del bene all’impresa (nel caso di specie era stato detratto da parte di un impresa esercente il commercio all’ingrosso di alimentari, il costo per la costruzione di un campo da tennis per il relax dei propri dipendenti).
            Oltretutto, anche quando si invochi un’esigenza pratica di utilizzazione del bene per renderlo "inerente" all’esercizio dell’attività svolta (ad esempio un’autovettura), la stessa non costituisce prova (Comm. Trib. Centrale n.7799 del 16.11.1991).
            Da ultimo, sono sorti orientamenti reclamanti un innegabile diritto alla detrazione d’imposta scaturente dalla lettura dell’articolo 4, comma 2 del Dpr 633/72, così da correlarlo con il successivo art.19.
            Vediamo in dettaglio: "si considerano in ogni caso effettuate nell’esercizio d’impresa le cessioni di beni e le prestazioni di servizi fatte dalle società in nome collettivo, in accomandita semplice, dalle società per azioni e a responsabilità limitata…."
            Bisogna prestare attenzione, poiché, in forza della presunzione della norma citata, vanno ricomprese nell’esercizio d’impresa, con la conseguente detraibilità dell’iva assolta a monte, solo le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate dai soggetti societari, ma non anche gli acquisti, i quali rientrano nella disposizione prevista dall’art.19 (Comm. Trib. Centrale n.1983 del 24.5.93


            non conosco l'orientamento dell'a.e.....

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              Il minimo legale del capitale sociale delle s.r.l. (artt. 2463, 2482 e 2482-ter c.c.)

              In seguito alle modificazioni dell'art. 2463 c.c., ad opera del d.l. 76/2013, tutte le s.r.l., a prescindere dall'ammontare del capitale sociale:a) possono deliberare una riduzione del capitale sociale a copertura di perdite a un ammontare inferiore a euro diecimila, sia qualora la società versi nelle situazioni di cui agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., sia qualora essa abbia perdite inferiori a un terzo del capitale sociale;b) possono deliberare un aumento del capitale sociale, a titolo gratuito o a pagamento, ad un ammontare inferiore a euro diecimila, anche in seguito a riduzione o azzeramento del capitale sociale a copertura di perdite.
              Si ritiene invece che non possa essere deliberata una riduzione del capitale sociale mediante rimborso ai soci delle quote pagate o mediante liberazione dall'obbligo dei versamenti ancora dovuti o mediante passaggio di capitale a riserve disponibili, qualora, all'esito dell'operazione, la somma del capitale sociale e della riserva legale risulti di ammontare inferiore a euro diecimila.
              MotivazioneLa massima affronta alcune questioni interpretative relative al minimo del capitale sociale della s.r.l., con riferimento alle operazioni di riduzione e di aumento di capitale, in seguito alle modifiche apportate dal d.l. 76/2013.Per un verso, l'art. 2463 c.c., pur mantenendo l'originaria disciplina secondo la quale "L'atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico e deve indicare (.) l'ammontare del capitale, non inferiore a diecimila euro" (comma 2, n. 4), dispone ora che "L'ammontare del capitale può essere determinato in misura inferiore a euro diecimila, pari almeno a un euro. In tal caso i conferimenti devono farsi in denaro e devono essere versati per intero alle persone cui è affidata l'amministrazione" (comma 4).Per altro verso, le norme in tema di riduzione "effettiva" e di riduzione per perdite sotto il minimo legale continuano a fare riferimento al limite minimo di cui all'art. 2463 n. 4) c.c., ossia diecimila euro. Così avviene nell'art. 2482 c.c. che dispone che "La riduzione del capitale sociale può avere luogo, nei limiti previsti dal numero 4) dell'articolo 2463" e nell'art. 2482-ter c.c., ai sensi del quale "Se, per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al disotto del minimo stabilito dal numero 4) dell'articolo 2463, gli amministratori devono senza indugio convocare l'assemblea per deliberare la riduzione del capitale ed il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo".
              Sorgono pertanto diversi interrogativi, i principali dei quali riguardano: (i) la possibilità di deliberare una riduzione del capitale sociale a copertura di perdite a un ammontare inferiore a euro diecimila, a prescindere dalla circostanza che esse siano o meno superiori a un terzo del capitale oppure che lo riducano o meno al di sotto del limite di euro diecimila o di euro uno; (ii) la possibilità di deliberare un aumento di capitale, gratuito o a pagamento, a un importo inferiore a euro diecimila, anche in seguito a riduzione o azzeramento del capitale sociale a copertura di perdite; (iii) la possibilità di deliberare una riduzione "effettiva" del capitale sociale a un importo inferiore a euro diecimila.

              Nell'affrontare tali questioni si è anzitutto ritenuto che il rinvio al limite dell'art. 2463 n. 4) c.c. (diecimila euro), contenuto nelle due norme sopra citate (artt. 2482 e 2482-ter c.c.) sia frutto di un difetto di coordinamento e sia da interpretare come se fosse riferito alnuovo limite contenuto nel successivo comma 4 dello stesso art. 2463 c.c. (un euro). Si è altresì ritenuto che il nuovo limite di un euro non rappresenti unicamente una sorta di "agevolazione" in sede di costituzione della società, bensì rappresenti in generale il nuovo limite minimo del capitale sociale nella s.r.l., pur residuando alcune regole che mantengono una sorta di "vincolo patrimoniale" al medesimo importo di diecimila euro cui era collegato il vecchio limite minimo.
              Questi due assunti poggiano essenzialmente sulla constatazione che l'attuale quadro normativo ha esteso a qualsiasi s.r.l. la possibilità di costituirsi e di proseguire per l'intera durata stabilita dallo statuto - o se del caso a tempo indefinito - con un euro di capitale sociale e con un patrimonio netto non inferiore a un euro. Se tale regola di "nascita" e di "sopravvivenza" della s.r.l. non è legata a determinate tipologie di società, a determinate attività, a un determinato periodo di tempo o ad altri determinati requisiti o condizioni, significa che il sistema delle società di capitali rende ormai applicabile alle s.r.l. la disciplina del capitale sociale pur in presenza di una dotazione patrimoniale meramente simbolica. Ciò che rileva, in altre parole, non è tanto la dotazione patrimoniale, quanto il sistema delle regole del capitale sociale, nel cui ambito assume primaria importanza la regola che impone l'alternativa tra "ricapitalizza, trasforma o liquida" quando il valore del patrimonio, al netto dei debiti, scende al di sotto della "asticella" minima, ora fissata a un euro. Si può quindi dire che sia tale sistema di regole - e non tanto l'altezza della "asticella" del limite minimo del capitale - a caratterizzare da questo punto di vista le società di capitali e le società cooperative, rispetto alle società di persone.In particolare, non si ravvisano motivi di carattere né sistematico né funzionale per imporre a una s.r.l., che sia nata con un capitale pari o superiore a diecimila euro e che abbia perso l'intero capitale sociale, di ricostituire il proprio capitale sociale a un importo "non inferiore a diecimila euro", cosa che occorrerebbe fare se si volesse interpretare il rinvio contenuto nell'art. 2482-ter c.c. come se avesse ancora ad oggetto il vecchio limite minimo dettato dall'art. 2463, comma 2, n. 4), c.c. e non invece il nuovo limite minimo dettato dall'art. 2463, comma 4, c.c. Tra le diverse considerazioni che si possono fare, si pensi in particolare alla seguente. Da un lato, una società che sia nata con un capitale sociale di un euro e che, dopo aver accantonato riserve tali da avere un patrimonio netto superiore a diecimila euro, subisca perdite tali da ridurre il proprio patrimonio netto a un ammontare non inferiore a un euro può continuare la propria attività, senza alcun obbligo di ricapitalizzazione. Dall'altro, una società che sia nata con un capitale pari o superiore a diecimila euro e che subisca le stesse perdite sarebbe tenuta, non solo a ridurre il capitale sociale a copertura delle perdite, ma anche ad aumentarlo sino ad almeno diecimila euro, ove non decidesse di sciogliersi o trasformarsi in società di persone.

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                Ragioni di coerenza logica, di parità di trattamento e di aderenza alle finalità della disciplina così riformata inducono pertanto ad aderire all'interpretazione - peraltro già diffusa in dottrina - che svaluta il dato letterale della norma ora citata e che colloca a un euro la soglia di ricapitalizzazione delle società che abbiano perso l'intero capitale sociale.Una volta venuto meno il significato letterale del rinvio al vecchio limite minimo dettato dall'art. 2463, comma 2, n. 4), c.c., ai fini della ricapitalizzazione in caso di perdita del capitale sociale di s.r.l. che siano state costituite con un capitale sociale non inferiore a diecimila euro, viene meno la tenuta sistematica di tutti e tre i rinvii al vecchio limite minimo, contenuti negli artt. 2482 e 2482-ter c.c. E si giustificano così i corollari affermati nella massima in epigrafe, secondo la quale il nuovo limite minimo di un euro trova applicazione non solo in caso di ricapitalizzazione dopo la perdita del capitale, bensì anche in ogni caso di: (i) riduzione del capitale sociale, sia a copertura di perdite che mediante rimborso ai soci (o nelle altre forme dell'art. 2482 c.c.); (ii) aumento del capitale sociale, sia a pagamento sia mediante imputazione di riserve.L'unico ulteriore vincolo che deriva dall'attuale sistema di regole, concerne invero le ipotesi di riduzione del capitale con modalità diverse dalla copertura di perdite (ossia mediante rimborso ai soci, mediante liberazione dei soci dall'obbligo dei conferimenti o mediante passaggio di parte del capitale sociale a riserva), qualora la somma del capitale sociale e della riserva legale risulti inferiore a euro diecimila. Questa operazione sarebbe infatti incompatibile con l'obbligo di accantonamento "accelerato" della riserva legale, disposto dall'art. 2463, comma 5, c.c., che dà luogo a una sorta di "seconda asticella" posta dal legislatore a un livello superiore al nuovo limite minimo del capitale sociale, in corrispondenza del vecchio limite minimo dei diecimila euro. Siffatto patrimonio netto vincolato sembra quindi impedire che qualsiasi s.r.l. deliberi volontariamente un'operazione sul capitale che abbia ad effetto la riduzione di tale patrimonio netto vincolato - costituito dalla somma del capitale sociale e dalla riserva legale - al di sotto dei diecimila euro. Va infine segnalato il problema che si verifica quando il capitale sociale eroso da perdite al di sotto dei diecimila euro non sia interamente versato, stante la possibilità che la previsione dell'art. 2463, comma 4, c.c., sia da interpretare nel senso che anche in questo caso il capitale sociale, una volta ridotto a un ammontare inferiore a diecimila euro, debba essere interamente versato.

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                  Nota bibliografica

                  In seguito alle modifiche apportate all'art. 2463 c.c. ad opera del d.l. 76/2013, convertito in l. 99/2013, la dottrina prevalente ritiene ammissibile deliberare una riduzione del capitale sociale per perdite a un ammontare inferiore a euro diecimila. Si vedano: G. Marasà , Considerazioni sulle nuove s.r.l.: s.r.l. semplificate, s.r.l. ordinarie e start up innovative prima e dopo la L. n. 99/2013 di conversione del D.L. n. 76/2013, in Società , 2013, p. 1068 ss. ed ivi p. 1078 s. (ove si legge che «l'opzione che si apre ora ai soci della s.r.l., tra fissare il capitale sociale ad almeno diecimila euro (.) oppure fissarlo tra uno e novemilanovecentonovantanove euro (.) sarebbe esercitabile permanentemente, almeno se si tratta di sottrarre la società allo scioglimento causato dall'entità delle perdite. Ne seguirebbe che una società di capitali (s.p.a. o s.r.l.), ove, per effetto di perdite superiori ad un terzo, rimanga con un patrimonio inferiore a diecimila euro ma superiore ad un euro, potrebbe sopravvivere senza necessità di ricapitalizzarsi e, nel caso di s.r.l., senza necessità di trasformarsi ma solo vincolandosi, previa riduzione del capitale sociale, al più severo regime di formazione della riserva legale ex art. 2463, comma 3, nuovo testo. Così, (.) si potrebbe ritenere superabile il dato testuale dell'art. 2482 ter che pure, con riguardo alla situazione in esame, nell'imporre o la ricapitalizzazione o la trasformazione (in società personale), fa riferimento, letteralmente, al capitale minimo dell'art. 2463, n. 4, cioè a quello di diecimila euro»); C. Montagnani, Prime (e ultime) osservazioni su s.r.l. ordinaria e semplificata quasi (ma con) capitale, in Riv. dir. comm., 2013, II, p. 395 ss. ed ivi p. 412 (ove si afferma che se «prima degli ultimi interventi si poteva (.) dubitare (.) che, nella s.r.l. ordinaria, la perdita del capitale che ne intaccasse il minimo legale dovesse comportare l'applicazione dell'art. 2482-ter c.c. e, in mancanza dei provvedimenti ivi previsti (.), dell'art. 2484, comma 1, n.4), c.c., e non il mero adeguamento alla disciplina di cui all'art. 2463-bis c.c.», attualmente «l'adeguamento non comporta un'opzione "semplificatrice", ma solo l'applicazione dell'art. 2463, ult. comma, c.c., (.) purché residui almeno un euro di capitale o il capitale sia, almeno in quella misura, ricostituito»); G.A. Rescio, Le s.r.l. con capitale ridotto (semplificate e non semplificate), in Riv. dir. soc., 2013, p. 495 ss. ed ivi p. 512; O. Cagnasso, La nuova s.r.l. italiana: una scelta legislativa eccezionale o un modello nuovo e stabile di efficienza?, in Nuovo dir. soc., 2014, p. 39 ss. ed ivi p. 44 s..Di opposto avviso, tuttavia: S. Patriarca, Le società a responsabilità limitata a capitale ridotto dopo un anno: ancora più dubbi che certezze?, in Nuovo dir. soc., 2013, p. 8 ss. ed ivi p. 20 s. (ove si legge che «mentre il fenomeno "progressivo" appare per certi versi naturale (.), la conversione da s.r.l.-base a s.r.l. a capitale ridotto (.) non sembra possibile, in quanto (.) incompatibile con la disciplina del capitale minimo»); L. Tronci, La riserva legale a formazione accelerata: problemi vecchi e nuovi, in Riv. soc., 2014, p. 191 ss. ed ivi p. 206. In senso parzialmente contrario, quanto alle sole s.r.l. con un capitale di partenza pari o superiore a euro diecimila, si veda M.S. Spolidoro, Una società e responsabilità limitata da tre soldi (o da un euro?), in Riv. soc., 2013, p. 1085 ss. ed ivi p. 1111 s..Correlativamente a quanto sopra esposto, la dottrina appare prevalentemente orientata nel ritenere che il presupposto di applicazione dell'art. 2482 ter c.c. risulti verificato in seguito all'abbattimento per perdite del capitale sociale al di sotto di euro uno (anziché al di sotto di euro diecimila). Contra, però, N. de Luca, Manutenzione del capitale nelle s.r.l. semplificate e in quelle in crisi, inSocietà , 2013, p. 1185 ss. ed ivi p. 1187 (ove si legge che «dato che il capitale minimo continua ad essere fissato dalla legge in misura pari a 10.000 euro (.) ogni perdita di oltre un terzo incidente sul capitale è tale da attrarre la regola c.d. ricapitalizza o liquida (2482 terc.c.), con sostanziale inapplicabilità dunque delle previsioni dell'art. 2482 bis c.c.»); L. Tronci, op. cit., p. 205 s.; nonché, ma limitatamente alle s.r.l. costituite con un capitale pari o superiore a euro diecimila, M.S. Spolidoro, op. cit., p. 1111 s..La maggioranza degli Autori ritiene inoltre possibile deliberare un aumento di capitale, gratuito od oneroso, a un importo inferiore a euro diecimila, anche in seguito a copertura di perdite: per tutti, si veda G.A. Rescio, op. cit., p. 507. Ci si chiede, peraltro, se il capitale sociale eroso da perdite al di sotto di euro diecimila debba essere interamente versato, stante il disposto dell'art. 2463, comma 4, c.c.: in senso affermativo, si veda G.A. Rescio, op. cit., p. 512; in senso negativo, anche in ordine alla possibilità di effettuare in tal caso conferimenti in natura, cfr. M.S. Spolidoro, op. cit., p. 1111 (ove si legge che «è (.) da escludere che per le s.r.l. tradizionali costituite con meno di diecimila euro di capitale si possa presentare il dubbio circa la possibilità di aumentare il capitale tramite versamenti parziali ovvero mediante conferimenti in natura (anche per portare il capitale stesso da un euro a meno di diecimila euro) (.). Infatti alle s.r.l. tradizionali costituite con capitale sociale compreso tra un euro e 9.999.99 euro si applicano tutte le disposizioni dettate per le s.r.l. tradizionali, senza che per esse sia previsto il filtro della "compatibilità"»).Risulta controversa la possibilità di deliberare una riduzione "effettiva" del capitale sociale ad un importo inferiore a euro diecimila. L'opinione favorevole è stata sostenuta da F. Magliulo, La riduzione reale del capitale nella società a responsabilità limitata, inNuovo dir. soc., 2013, p. 59 ss. ed ivi p. 71 s. (ove si afferma che «non pare che (.) dal sistema normativo si possa dedurre un divieto da parte di una s.r.l. ordinaria o una s.p.a. di assumere la forma della società a responsabilità limitata con capitale inferiore ad euro 10.000, a fronte di una regola generale immanente al sistema, che consente in linea di principio la trasmigrazione da una forma sociale all'altra (.). Dunque il tenore letterale dell'art. 2482 c.c., laddove pone, quale limite alla riduzione reale del capitale, il limite previsto dall'art. 2463 n. 4 c.c., è evidentemente frutto di un difetto di coordinamento»). In senso contrario, si sono espressi: N. de Luca, op. cit., p. 1187; L. Tronci, op. cit., p. 204; S. Patriarca, op. cit., p. 20 s.. Si veda, inoltre, G.A. Rescio, op. cit., p. 511 s. (ove il riferimento «all'aggiunto 4° comma, là dove si prescrive l'accumulo accelerato della riserva legale in misura tale da assicurare il raggiungimento di un patrimonio netto vincolato di euro 10.000 (.). Tale disposizione (.) ruota intorno al concetto di patrimonio netto vincolato (.): essa, dunque, è interpretabile (.) come sancente l'inammissibilità di una riduzione volontaria e reale del patrimonio netto vincolato, con conseguente inammissibilità di una riduzione volontaria e reale del capitale che determini un patrimonio netto vincolato inferiore ad euro 10.000 (se il capitale è ordinario) ovvero inferiore a quello, minore di euro 10.000, di cui attualmente gode la s.r.l. (se il capitale è ridotto)»).Da ultimo, è da segnalare l'assenza di opinioni dottrinarie in merito al limite minimo da rispettare nella determinazione del capitale sociale all'esito di talune operazioni straordinarie, e precisamente: (i) in caso di trasformazione in s.r.l., sia da società di persone, con capitale sociale anche inferiore a euro diecimila, sia da società azionarie, con contestuale eventuale riduzione del capitale sociale, vuoi a copertura di perdite, vuoi mediante imputazione a riserva o mediante rimborso ai soci; (ii) in caso di fusione, sia per incorporazione in una s.r.l. avente un capitale sociale già inferiore a euro diecimila (e con un aumento a servizio della fusione a un importo inferiore a euro diecimila), sia mediante costituzione di una nuova s.r.l. con capitale sociale inferiore a euro diecimila; (iii) in caso di scissione, sia a favore di una o più beneficiarie in forma di s.r.l., con capitale inferiore a euro diecimila, sia a favore di beneficiarie preesistenti aventi già un capitale inferiore a euro diecimila (e con un aumento a servizio della fusione a un importo inferiore a euro diecimila); ipotesi, queste, nelle quali l'applicazione dei principi espressi nella massima indurrebbe mutatis mutandis a considerare che il nuovo limiti minimo del capitale sociale sia pari a un euro, anche in siffatte circostanze. [Nota bibliografica a cura di M. Borio]

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                    Nota bibliografica


                    La s.r.l. semplificata e la s.r.l. a capitale ridotto sono prive di una disciplina specifica anche per quanto riguarda la riduzione del capitale sociale. A questo proposito, il dubbio postosi tra gli interpreti è, come rilevato da G. Gavelli - F.R.Vitali, Rischio ricapitalizzazione per le Srl "semplificate", in Il Sole 24 Ore, 26 aprile 2012, p. 22, quello di determinare se «[m]ancando, tendenzialmente, un capitale, si può concretamente sostenere che queste norme [artt. 2482-bis e 2482-ter c.c.] non siano applicabili alle società da "un euro"».


                    1. - L'orientamento finora minoritario propende per l'inapplicabilità delle previsioni codicistiche in caso di perdite, trattandosi di «una disciplina che non sembra possa essere ritenuta "compatibile" con le peculiarità della società semplificata a r.l. e, in particolare, con le finalità che hanno giustificato l'introduzione di essa nel nostro ordinamento. L'applicazione di quella disciplina condurrebbe infatti al risultato che, in un numero significativo di casi, quantomeno in quelli in cui il capitale viene fissato a 1 euro, la società si troverebbe verosimilmente, sin dal momento della sua costituzione, in una situazione patrimoniale tale da determinare la necessità dell'adozione dei provvedimenti di cui all'art. 2482-ter» (così P. Revigliono, La società semplificata, cit., p. 23-24; Id., La società a responsabilità , cit., p. 644); in senso analogo, A. Baudino, cit., p. 29, per il quale «se si considera che la fase di start up dell'impresa è destinata a generare perdite, per il naturale sfasamento tra costi e ricavi, la previsione di un capitale minimo simbolico di un euro comporta l'accettazione del principio che la società possa costituirsi ed operare con un patrimonio netto anche significativamente negativo. Occorre quindi concludere che, nel nuovo quadro normativo, il capitale sociale della s.r.l. semplificata conserva essenzialmente una funzione organizzativa e contabile».

                    Sullo stesso punto, ma giungendo a conclusioni opposte, si vedano invece A. Busani - C.A. Busi, La s.r.l. semplificata (s.r.l.s.), cit., p. 1318, per i quali «non sembra si possa ritenere che la funzione del capitale in queste s.r.l. a capitalizzazione ridotta possa essere degradata a quella di mera quantificazione dei conferimenti iniziali, in quanto tale conclusione è incompatibile con la responsabilità limitata dei soci». Invero, secondo questi Autori, «la s.r.l.s. e la s.r.l.c.r. restano pur sempre società di capitali con responsabilità limitata dei soci e quindi non pare ammissibile il permanere di detta responsabilità limitata in una situazione di deficit del capitale sociale causata dalle perdite subite, e ciò anche se la linea di galleggiamento sia posizionata, nel caso delle s.r.l.s. e delle s.r.l.c.r., ad un livello inferiore rispetto a quello della s.r.l.o. Cosicché, se, nella s.r.l.o., il concetto di perdita rilevante (...) matura partendo dal presupposto che la s.r.l. in questione abbia il proprio capitale sociale stabilito in un dato valore nominale e che il minimo di legge sia fissato in 10mila euro, nel caso della s.r.l.s. e della s.r.l.c.r. si dovrà semplicemente partire dal presupposto che si tratta di società con capitale compreso tra 1 e 9.999,99 euro e che il minimo di legge è, appunto, stabilito in un solo euro»; tra i fautori della tesi maggioritaria, che non mette in dubbio l'applicabilità degli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c. alla s.r.l. semplificata e alla s.r.l. a capitale ridotto si devono annoverare anche F.G. Nardone, A. Ruotolo, Questioni applicative, cit. e M. Cian, cit., p. 1122-1123, per il quale, da un lato, «s.r.l.s. e s.r.l.c.r. non possono definirsi società a capitale assente» e, dall'altro, nel sistema italiano si riscontra l'assenza di disposizioni mirate ad adattare la disciplina ordinaria ai nuovi sotto-tipi, e pertanto «[l]'operatività del sistema normativo dedicato al capitale sociale non subisce conseguentemente restrizioni» e vi è «piena equiparazione dei submodelli, sotto questo profilo, al modello ordinario». Nello stesso senso anche F. Tassinari, cit., p. 24-25, il quale riferendosi agli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c., afferma che «si deve concludere nel senso della piena applicabilità anche ai due nuovi sottotipi dei citati articoli del codice civile», in quanto «[l]a funzione di tale norme, anche per la SRLS e per la SRLCR, resta quella di evitare che tali società possano operare in una zona franca da norma imperativa anche qualora il patrimonio netto, lungi dall'essere pari a zero, finisca con l'andare in deficit, ovvero anche di molto sotto lo zero, impedendo, dove non è in gioco la responsabilità illimitata di uno o più soci, che la società, che a quel punto opera con risorse di terzi, possa proseguire senza problemi la propria attività». Infine, favorevole all'applicazione delle regole in materia di riduzione del capitale è anche M. Rescigno, cit., p. 80-81, per il quale, facendo anche riferimento alla diversa soluzione adottata per le s.r.l. innovative, «sembra che il legislatore, consapevolmente, abbia voluto fermarsi un passo prima della scelta più radicale e cioè quella dell'abolizione della necessità di un capitale sociale e abbia comunque voluto mantenerne in pieno l'applicabilità della disciplina [della riduzione del capitale per perdite], non tanto come un feticcio, quanto come elemento ancora coessenziale per delineare il sistema dell'esercizio informa societaria dell'attività di impresa».

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                      SRLCR--> abolita

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