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    Originariamente inviato da strelizia Visualizza il messaggio
    Nel caso non ci sia inversione contabile?
    Se c'è frode carosello non c'è inversione contabile

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      ok

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        Originariamente inviato da ROL Visualizza il messaggio
        FATTURA : requisiti, termini di emissione e di registrazione
        Bisognerebbe fare uno specchietto...

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          notifica nulla e notifica inesistente: Differenze.

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            Originariamente inviato da ROL Visualizza il messaggio
            notifica nulla e notifica inesistente: Differenze.
            http://www.laleggepertutti.it/88516_...za-e-sanatoria

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              Commissione Tributaria Provinciale di Grosseto – Provvedimento 23 febbraio 2015.
              Da annullare la cartella esattoriale notificata via PEC qualora la prova dell’avvenuta notificazione sia data unicamente in forma cartacea.

              Nel caso oggetto di esame la società Equitalia aveva provveduto alla notificazione, nei confronti della società opponente, di una cartella esattoriale tramite posta elettronica certificata.A seguito dell’opposizione della società de qua in ordine alla mancata corretta notificazione della cartella in questione, Equitalia aveva depositato una stampa cartacea della ricevuta di accettazione e consegna del messaggio PEC, confidando che ciò potesse bastare a comprovare l’avvenuta corretta ricezione del messaggio di posta certificata da parte del destinatario.

              La Commissione Tributaria Provinciale di Grosseto ha ritenuto che il ricorso dovesse essere accolto stante l’assenza di prova della regolare notifica della cartella esattoriale. La difesa di Equitalia, infatti, ha depositato in giudizio unicamente copia cartacea di un messaggio mail (che asseritamente avrebbe contenuto la prova dell’avvenuta notificazione via PEC) proveniente da un’addetta all’ufficio ed indirizzato al legale della società e non invece le ricevute di accettazione e di consegna in formato nativo digitale che avrebbero permesso alla Commissione Tributaria di avere piena conoscenza dell’esito della notificazione.

              La pronuncia in oggetto, quindi, ha il merito di evidenziare quella che da sempre, almeno per gli studiosi di informatica giuridica, è unasumma divisio, ossia, quella fra documento analogico e documento digitale, definiti dall’art. 1 del Codice dell’Amministrazione Digitale rispettivamente come: la rappresentazione non informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” e “la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”

              Entrambe tali tipologie di documento sono portatrici di elementi propri che, nel momento in cui il formato del documento muta, possono essere parzialmente o totalmente perse.Pensiamo, tanto per fare un esempio classico, al testamento olografo redatto dal de cuius e di cui sia effettuata una scannerizzazione: tale file, risultante dall’opera di digitalizzazione, non potrà mai essere oggetto di perizia calligrafa da parte di un perito, semplicemente perché il documento scannerizzato non darà indicazioni in ordine alla pressione della penna sul foglio, in ordine alla qualità e conservazione della carta su cui è stato redatto il documento, etc…. Sostanzialmente, quindi, il documento analogico recherà con se informazioni che andranno a perdersi a causa del processo di digitalizzazione (scannerizzazione).

              Medesima riflessione può essere proposta per il file digitale che venga stampato, poiché, anche in questo caso, il procedimento di stampa eliminerà tutta una serie di “di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti” (per dirlo con le parole del CAD) che invece nel documento digitale erano presenti.Tornando al caso oggetto di analisi, ad esempio, i file della ricevuta di accettazione e di consegna (solitamente salvati nei formati .eml oppure .msg) sarebbero stati documenti informatici idonei a comprovare l’avvenuta ricezione della cartella esattoriale notificata via PEC, mentre lo stesso non può dirsi per le stampe di dette ricevute che, di fatto, non solo non sono in grado di comprovare cosa sia stato effettivamente allegato al messaggio PEC oggetto di analisi (ricordo ai lettori che all’interno della ricevuta di consegna completa di un messaggio PEC è sempre allegato il messaggio originale inviato al destinatario) ma che oltretutto rappresentano – a tutti gli effetti – dei semplici fogli di carta dei quali non è possibile in alcun modo riconoscere l’origine.
              I documenti in questione, in effetti, ben potrebbero essere stati artatamente creati attraverso programmi di redazione testo oppure di fotoritocco.
              In conclusione Equitalia avrebbe dovuto depositare in giudizio la stampa delle ricevute munite di attestazione di conformità da parte di un Pubblico Ufficiale (come ad esempio è espressamente previsto anche per gli Avvocati che notificano in proprio ex art. 9 comma 1bis L. 53/1994) oppure – molto più semplicemente – depositare i file digitali delle ricevute de quibus.
              Ultima modifica di ROL; 02-02-2016, 14:31.

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                Lo sviluppo dei trust interni in italia

                Nel nostro paese il trust non è un istituto tipico disciplinato dal codice civile. Nel disegno di legge della “Comunitaria 2010” era in realtà prevista l’introduzione nel libro quarto del Codice civile del cosiddetto contratto di fiducia, che doveva rappresentare il “trust” italiano, ma poi quella previsione non ebbe concreta attuazione. Ad oggi, quindi, il trust non ha una propria disciplina interna, questo naturalmente sul versante civilistico, mancando una disciplina interna, lo sviluppo dei trust nel nostro Paese poggia quindi sulla Convenzione.
                Non tutti concordano però sulla legittimità del trust interno. Una parte minoritaria della dottrina ritiene che la Convenzione rappresenti una normativa di diritto internazionale privato emanato unicamente per consentire ai trust internazionali di produrre effetti nei Paesi privi di una legislazione sul trust.
                Non ci sarebbe quindi riconoscimento del trust privo di caratteristiche di internazionalità, naturalmente ulteriori rispetto alla legge regolatrice. Sul punto va detto che, pur non essendovi una posizione “definitiva” da parte della giurisprudenza di legittimità, che non si è mai espressa in modo diretto sul punto, vi sono alcune pronunce emesse dalle sezioni penali della Cassazione, in particolare sul sequestro preventivo penale di beni conferiti in trust, così come della sezione civile, in materia di abuso del diritto e sui profili impositivi, che implicitamente “riconoscono” il trust interno. La giurisprudenza di merito è invece schierata in modo nettamente preponderante per la legittimità del trust interno.
                Va detto che, sebbene in misura minoritaria, non sono mancate pronunce di segno contrario, anche in tempi recenti: da ultimo quella del Tribunale di Udine del 28 febbraio 2015.
                (Lupo solitario dove vai…..)

                Trust - Trust interno - Nullità per impossibilità giuridica dell'oggetto
                In tema di riconoscibilità dei cosiddetti trust interni, quelli cioè che non hanno alcun elemento di estraneità rispetto all'ordinamento italiano, se non quello della legge applicabile scelta dai soggetti disponenti, si deve ritenere che gli ordinamenti cd. non-trust, che con la firma della convenzione si impegnano riconoscere al loro interno gli effetti di trust costituiti nei paesi che prevedono quell'istituto, restano liberi di riconoscere o meno i trust interni, ai quali vengono equiparati quelli in cui gli unici elementi di estraneità, oltre alla scelta della legge applicabile, sono la residenza o la sede del trustee. A tale conclusione è possibile pervenire in considerazione del fatto che la legge 16 ottobre 1989, n. 264, che ha ratificato la Convenzione dell'Aja del 1 luglio 1985 "sulla legge applicabile ai trusts e sul loro riconoscimento" consiste nella ratifica di un trattato di diritto internazionale privato, il cui scopo è quello di regolare fattispecie concrete con elementi oggettivi di interferenza tra diversi ordinamenti nazionali, nonché del fatto che l'articolo 13 della Convenzione, lungi dal porre una deroga a questo principio, lo ribadisce espressamente affermando che nessuno Stato è tenuto a riconoscere un trust i cui elementi importanti, ad eccezione della scelta della legge da applicare, del luogo di amministrazione e della residenza abituale del trustee, sono più strettamente connessi a Stati che non prevedono l'istituto del trust o la categoria del trust.

                La libertà, consentita dalla Convenzione dell'Aja ai vari Paesi, al riconoscimento del trust interno non è riservata ad una iniziativa del legislatore, ma è demandata al giudice, investito del compito di verificare volta per volta ed esaminando le caratteristiche del caso concreto (la "causa concreta" del negozio) la meritevolezza o meno del singolo trust.



                NB: voi esponete in sede di esame la dottrina maggioritaria......

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                  curr curr.....

                  http://www.camera.it/_dati/leg17/lav...PDL0022100.pdf

                  Commenta


                    sembra crozza.....

                    http://www.ilfattoquotidiano.it/2016...talia/2426866/

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                      Se il notaio è consapevole del fatto che l’atto che sta rogando, per come chiestogli dal cliente, è rivolto a eludere ed aggirare le norme pubblicistiche di legge, e in particolar modo il recupero delle imposte, rendendo più difficile al fisco (e in particolar modo, a Equitalia) eventuali pignoramenti, l’atto pubblico è nullo e il notaio rischia per di più un procedimento disciplinare.

                      A sorpresa la Cassazione stabilisce il principio dell’invalidità degli atti fraudolenti in danno alla collettività, anche se sottoscritti alla presenza del pubblico ufficiale.

                      Il “timbro” del professionista non garantisce più il cliente della piena validità del contratto stipulato davanti a questi se l’intento elusivo è noto a tutti. Né si può dire che il notaio abbia sempre l’obbligo di non rifiutare le prestazioni richiestegli dal cliente. Anzi, è suo preciso dovere rifiutarsi dal prestare qualsiasi tipo di assistenza se è consapevole dello scopo illecito delle parti, sempre che tale scopo si ponga in contrasto con interessi pubblici.

                      È questa la sintesi di una importante sentenza, emessa venerdì scorso, con cui la Suprema Corte ha accolto un procedimento disciplinare nei confronti di un notaio per aver costituito un fondo patrimoniale su alcuni immobili allo scopo di sottrarli al fisco e alla riscossione esattoriale. Gli atti stipulati dal notaio nella consapevolezza delle finalità elusive perseguite dal cliente sono nulli, anche se presi singolarmente non presentano alcun carattere di invalidità. L’obbligo di rogare un contratto, infatti, non può imporre al professionista di prestare la propria opera per aggirare norme pubblicistiche. In buona sostanza, questo significa che se ad essere pregiudicato è un soggetto privato (una banca o altro creditore singolo), l’atto non è nullo; se invece il pregiudizio è nei confronti dello Stato e, in particolar modo, il fisco o Equitalia, allora l’atto è nullo per contrasto con l’interesse collettivo della cittadinanza.

                      La vicenda

                      Un notaio aveva costituito un fondo patrimoniale su alcuni beni sottoposti a sequestro penale: per quanto il sequestro fosse stato trascritto in data anteriore al fondo, e quindi prevalesse in ogni caso, ciò avrebbe comunque reso più difficoltosa la procedura coattiva di recupero delle imposte. Inoltre lo stesso notaio aveva rogato altri due contratti volti a sottrarre i beni del cliente al fisco. Secondo i giudici, il professionista avrebbe dovuto rifiutarsi di prestare la propria attività.

                      Secondo la Cassazione, il vincolo di indisponibilità che risulta sul bene in base al sequestro penale punisce ogni condotta suscettibile di rendere non solo impossibile ma anche semplicemente più difficoltosa la riscossione (come nel caso in cui il sequestro sia precedente al fondo patrimoniale).


                      Il notaio ha il dovere di astenersi

                      Cade la tesi secondo cui il notaio avrebbe l’obbligo di rogare tutti gli atti formalmente validi senza andare a indagare sulle reali intenzioni delle parti. Secondo i giudici, l’uso strumentale di atti leciti configurerebbe un’astratta nullità sul presupposto della loro coordinazione e finalizzazione a scopi illeciti.

                      Ciò che rileva e che rende nullo l’atto pubblico, è che l’attività professionale del notaio venga svolta nella sua piena consapevolezza dell’evidente finalità elusiva perseguita dal cliente. Pur non esistendo profili di rilievo penale – si legge in sentenza – occorre valutare il comportamento tenuto dal notaio, tenendo conto dell’attuale evoluzione dell’etica sociale verso un ordinamento economico/finanziario che limita sempre più l’area delle possibili elusioni delle norme imperative; ormai l’atteggiamento del legislatore è quello di responsabilizzare sempre di più la specifica funzione dei notai in ragione della loro qualificazione professionale ad intervenire nelle transazioni commerciali a tutelare non solo gli interessi delle parti contraenti, ma anche e specialmente quelli della generalità dei cittadini.

                      Dunque, se le norme violate dal cliente hanno la specifica ed evidente finalità “di garantire lo Stato nelle sue pretese fiscali da gravi violazioni in corso di accertamento, l’obbligo di rogare un atto non si estende anche ai casi in cui l’atto da rogare si ponga come un evidente strumento elusivo di norme pubblicistiche, assistite da sanzioni penali, pur in presenza di norme che, complessivamente interpretate, possano, in tesi, non necessariamente integrare la sola nullità intesa sotto il profilo civilistico”.

                      Cass. sent. n. 1716/2016 del 29.01.2016.
                      Ultima modifica di ROL; 02-02-2016, 17:16.

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