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Il valigione del tirocinante

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    Ahahahahahah

    http://www.ilfattoquotidiano.it/

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      'notte Rol! A domani

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        Vado anch'io
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          NON RESIDENTI

          Detrazioni per carichi di famiglia - L’art. 24, co. 3, D.P.R. 917/1986
          dispone esplicitamente che ai non residenti non spettano le detrazioni per carichi di famiglia. Tuttavia, in deroga alla citata diposizione normativa, nei confronti del cittadino straniero, comunitario o extracomunitario, che assume una soggettività tributaria in Italia, l’articolo 1, comma 1324, della legge 296/2006 (con effetti prorogati fino al 2012 dal D.L. 216/2011, il cosiddetto milleproroghe) ha riconosciuto il diritto alla detrazione per familiari a carico, fra i quali figurano il coniuge e i figli, ancorché residenti all’estero.
          La Legge di Stabilità del 2013 (L. 228/2012) aveva prorogato tale beneficio anche per il 2013. Anche per il 2014 è stato prorogato tale beneficio. Infatti, il Decreto Milleproroghe (D.L. 150/2013) ha confermato, anche per il 2014, la spettanza delle detrazioni per carichi di famiglia ai soggetti non residenti.
          Niente proroga invece per il 2015, salvo sorprese delle ultime ore.



          L’art. 7 della L. n. 161/2014 (Legge Europea bis 2013) ha introdotto il nuovo co. 3 – bis all’art. 24 del D.P.R. 917/1986, estendendo le medesime detrazioni e deduzioni previste per i soggetti residenti nel territorio dello Stato ai contribuenti che, pur residenti fiscalmente in un altro Stato membro o in un Paese dello Spazio economico europeo, producono almeno il 75% del proprio reddito complessivo in Italia.
          E’ stata inoltre prevista la possibilità per i soggetti non residenti di aderire al regime dei nuovi minimi, introdotto dal D.L. n. 98/2011.
          Le nuove disposizioni normative rispondono all’esigenza di far fronte alla procedura d’infrazione aperta dalla Commissione UE nei confronti dell’Italia, per la violazione degli articoli 21, 45 e 49 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue) e dei corrispondenti articoli 28 e 31 dell’accordo See, in virtù del fatto che non si consente ai soggetti non residenti che producono la maggior parte del proprio reddito in Italia di fruire delle deduzioni e detrazioni previste per i residenti nel territorio dello Stato, ed espressamente esclude l’ applicabilità ai non residenti del regime agevolato dei “minimi”.

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            STABILI ORGANIZZAZIONI: QUANDO È DOVUTA L’IVA IN ITALIA?

            Affinché si possa ritenere che la stabile organizzazione in Italia di un soggetto estero partecipi a un’operazione e sia tenuto per la suddetta operazione al versamento dell’IVA è necessario non solo che la stabile organizzazione partecipi all’operazione ma la stabile deve svolgere una parte essenziale dell’operazione. E’ quanto chiarito dall’Amministrazione Finanziaria in risposta ad un interpello reso noto dalla stampa specializzata (Sole 24 ore del 04.11.2015) che amplia l’interpretazione restrittiva fornita dall’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 37/E/2011.

            La stabile organizzazione ai fini IVA: rapporti con la casa madre - Il Regolamento Ue 282/2011, facendo proprie numerose interpretazioni giurisprudenziali, ha fornito la definizione di stabile organizzazione ai fini Iva. Il citato Regolamento, oltre a definire puntualmente il concetto di stabile organizzazione ai fini Iva, interviene sulla stabile organizzazione regolando i rapporti con la casa madre e gli effetti ai fini delle regole territoriali relative alle cessioni di beni ed alle prestazioni di servizi.
            In particolare:
            • l’art. 11 del citato Regolamento, fornisce la definizione di stabile organizzazione;
            • gli articoli 53 e 21 del Regolamento UE n. 282/2011 stabiliscono quando la stabile organizzazione, partecipando, rispettivamente dal lato attivo e da quello passivo, all’effettuazione dell’operazione, viene considerata soggetto passivo ai fini IVA in luogo della sede dell’attività economica.


            La partecipazione delle stabile organizzazione all’effettuazione dell’operazione – La stabile organizzazione è tenuta al versamento dell’IVA solo se partecipa all’effettuazione dell’operazione (art. 192-bis della direttiva 2006/112/CE). L’art. 192-bis della dir. 2006/112/CE, sancisce che, la stabile organizzazione, identificata in uno Stato membro diverso da quello del soggetto da cui essa dipende, fa venir meno l’obbligo generalizzato del reverse charge per i servizi e per i beni forniti al committente nazionale sotto due condizioni: 1. la casa madre effettua operazioni rilevanti nel territorio dello Stato (in cui la stabile organizzazione è identificata); 2. la stabile organizzazione partecipa alla esecuzione del servizio.
            Cosa si debba intendere per partecipazione è indicato nel Regolamento UE 282/2011.

            L’ articolo 53 del Regolamento Ue 282/2011 individua i casi un cui la stabile organizzazione, che opera come soggetto attivo, sia da prendere in considerazione come soggetto passivo ai fini IVA, in luogo della sede dell’attività economica.
            In particolare, la citata disposizione sancisce quando la stabile organizzazione è (non è) tenuta al versamento dell’IVA:
            • non lo è se NON partecipa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi ai sensi dell’art. 192- bis, lett. b), della Direttiva n. 2006/112/CE, a meno che la sua struttura sia utilizzata dalla casa madre per operazioni inerenti alla realizzazione della cessione o prestazione, prima o durante l’effettuazione della predetta cessione o prestazione;
            • non lo è se non partecipa alla cessione di beni o alla prestazione di servizi o se ha unicamente funzioni di supporto amministrativo (per esempio, la contabilità, la fatturazione e il recupero crediti);
            • infine, se, viene emessa una fattura con il numero di identificazione IVA attribuito dallo Stato membro della stabile organizzazione alla stessa, si considera, salvo prova contraria, che tale stabile organizzazione abbia partecipato alla cessione di beni o alla prestazione di servizi effettuata in tale Stato membro.


            Tali aspetti sono stati oggetto di un intervento operato dall’Amministrazione Finanziaria con la circolare 37/E del 2011. In base ai chiarimenti contenuti nella circolare, “deve escludersi che la stabile organizzazione partecipi all’effettuazione del servizio quando in nessun modo il cedente o prestatore utilizzi le risorse tecniche o umane della stabile organizzazione in Italia per l’esecuzione della cessione o della prestazione in considerazione”.
            L’interpretazione fornita dall’Amministrazione Finanziaria non pare del tutto in linea con le indicazioni del Regolamento UE 282/2011, facendo riferimento al semplice utilizzo delle risorse tecniche o umane della stabile organizzazione. Tale interpretazione è stata “ampliata” dalla Commissione UE che nel Working Paper n. 791 del 2014 e Working Paper n. 857/2015) ha precisato, su richiesta italiana, che una stabile organizzazione partecipa all’operazione se i mezzi umani e tecnici della stabile organizzazione sono stati effettivamente utilizzati nel caso concreto al fine di fornire (prima o durante l’esecuzione) un supporto in merito al completamento dell’operazione.
            Tale interpretazione viene fatta propria dall’Agenzia delle Entrate, la quale, in risposta ad un interpello reso noto dalla stampa specializzata, ha affermato che affinché si possa ritenere che la stabile organizzazione in Italia di un soggetto estero partecipi a un’operazione e sia tenuto per la suddetta operazione al versamento dell’IVA è necessario non solo che la stabile organizzazione partecipi all’operazione ma la stabile deve svolgere una parte essenziale dell’operazione. E’ quanto chiarito dall’Amministrazione Finanziaria in risposta ad un interpello reso noto dalla stampa specializzata.

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              ACCERTAMENTO AD CAPOCCHIAM. QUANDO IL FISCO SBAGLIA CON IL “RICARICO”

              Sentenza della Cassazione in tema di accertamento induttivo dei ricavi


              In tema di accertamento delle imposte dirette, hanno ricordato i supremi giudici, “per presumere l'esistenza di ricavi superiori a quelli contabilizzati e assoggettati ad imposta, non bastano semplici indizi, ma occorrono circostanze gravi, precise e concordanti. Ne consegue che non è legittima la presunzione di ricavi, maggiori di quelli denunciati, fondata sul raffronto tra prezzi di acquisto e di rivendita operato su alcuni articoli anziché su un inventario generale delle merci da porre a base dell'accertamento, né si rende legittimo il ricorso al sistema della media semplice, anziché a quello della media ponderale, quando tra i vari tipi di merce esiste una notevole differenza di valore ed i tipi più venduti presentano una percentuale di ricarico inferiore a quella risultante dal ricarico medio”.

              L’Ufficio ha sostenuto di aver proceduto alla determinazione del ricarico in base alla “media ponderata”, ma la CTR ha messo in luce le numerose falle di questo procedimento.

              Il giudice d’appello ha rilevato che la determinazione del ricarico è stata “tutt'altro che puntuale e precisa” per avere l’Ufficio “erroneamente attinto i prezzi di vendita da confrontare con i prezzi di acquisto dalle fatture emesse a carico di enti pubblici; per aver, talvolta, rapportato il prezzo di vendita con Iva al prezzo di acquisto senza l'imposta; per essere ‘troppo disomogenei’ i beni raggruppati per categorie omogenee, in realtà non coerenti, con conseguente troppo elevato scarto fra prezzo minimo e prezzo massimo”; per essere stato falsato, inoltre, il rapporto tra prezzo d’acquisto di oltre 7000 articoli e i prezzi di vendita oltre 2000 articoli; per aver l’Ufficio considerato nei prezzi d’acquisto sconti e abbuoni di competenza dell’anno precedente, e per non aver tenuto conto che nei prezzi di vendita era compresa la posa in opera degli articoli acquistati, con evidente incidenza del costo della mano d’opera sul prezzo di vendita praticato.

              A fronte di questi rilievi, la CTR ha giustamente ritenuto inficiato il risultato ottenuto, poi posto a base dell’accertamento impugnato, anche perché, con riguardo all’oggetto dell’attività del contribuente, attività di fatto rappresentata da merci molto disomogenee, non può dirsi legittimo un accertamento che non sia basato sul rigoroso calcolo della media ponderata. Pertanto la CTR ha affermato, trovando l’avallo dei Supremi Giudici, che “in presenza di scritture contabili corrette e quindi non contestate dall’ufficio, il solo rilievo che il contribuente abbia applicato una percentuale di ricarico diversa dal settore di appartenenza non è sufficiente a legittimare una presunzione di maggior redito, come nel caso di specie”.

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                Nota integrativa più ampia dal 2016

                Il DLgs. 139/2015 ha integrato l’informativa di bilancio, con l’obiettivo di migliorare la portata informativa del documento contabile


                Gli interventi normativi contenuti nel DLgs. 139/2015 (c.d. decreto bilanci) riguardano non soltanto gli schemi di Stato patrimoniale e Conto economico, nonché i relativi criteri di valutazione, ma anche il contenuto della Nota integrativa. Sotto questo profilo, il legislatore ha tendenzialmente ampliato l’informativa di bilancio, in modo coerente con la finalità, sottesa alla direttiva 2013/34/UE, di migliorare la portata informativa del documento contabile.
                Il decreto interviene, in via preliminare, sull’ordine dell’informativa.
                Viene, infatti, sostituito l’art. 2427 comma 2 c.c., stabilendo che “le informazioni in nota integrativa relative alle voci dello stato patrimoniale e del conto economico sono presentate secondo l’ordine in cui le relative voci sono indicate nello stato patrimoniale e nel conto economico”.
                La disposizione dà attuazione all’art. 15 della direttiva 2013/34/UE e riproduce quanto già previsto dal documento OIC 12, così come revisionato nel corso del recente progetto di aggiornamento dei principi contabili nazionali.

                Con riguardo, più prettamente, al contenuto della Nota integrativa, il decreto, in primo luogo, completa le informazioni relative ai rapportieconomici che possono intercorrere tra società e amministratori e sindaci.
                L’art. 2427 comma 1 n. 16 c.c. attualmente in vigore richiede di indicare in Nota integrativa “l’ammontare dei compensi spettanti agli amministratori ed ai sindaci, cumulativamente per ciascuna categoria”.
                Tale disposizione viene integrata, stabilendo che la Nota integrativa deve indicare, oltre all’ammontare dei compensi:
                - anche l’ammontare “delle anticipazioni e dei crediti concessi agli amministratori ed ai sindaci”;
                - “precisando il tasso d’interesse, le principali condizioni e gli importi eventualmente rimborsati, cancellati o oggetto di rinuncia, nonché gli impegni assunti per loro conto per effetto di garanzie di qualsiasi tipo prestate, precisando il totale per ciascuna categoria”.
                La relazione illustrativa evidenzia, in merito, che rimane ferma la disciplina dell’art. 2399 c.c., che vieta i rapporti patrimoniali che possano compromettere l’indipendenza dei sindaci.

                In secondo luogo, all’interno dell’art. 2427 comma 1 c.c., viene inserito il n. 22-quater, che richiede di indicare in Nota integrativa nuove informazioni riguardanti “la natura e l’effetto patrimoniale, finanziario ed economico dei fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio”.
                Parallelamente, è abrogato l’art. 2428 comma 3 n. 5 c.c., ai sensi del quale dalla Relazione sulla gestione devono risultare “i fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio”.
                Per effetto delle modifiche contenute nel DLgs., l’informativa sui fatti di rilievo avvenuti dopo la chiusura dell’esercizio, che deve essere attualmente fornita nella Relazione sulla gestione, viene, quindi, richiesta nell’ambito della Nota integrativa (documento che costituisce parte del bilancio), in attuazione delle modifiche apportate all’art. 19 della direttiva 2013/34/UE.

                A tal riguardo, si ricorda che, secondo il documento OIC 29, si considerano fatti di rilievo quelli che, richiedendo o meno variazioni nei valori dello stesso, influenzano la situazione rappresentata in bilancio e sono di importanza tale che la loro mancata comunicazione comprometterebbe la possibilità dei destinatari dell’informazione societaria di fare corrette valutazioni e prenderedecisioni appropriate.
                Peraltro, il citato principio contabile già richiede, in presenza di fatti di rilievo e per completezza dell’informativa di bilancio, di darne menzione nella Nota integrativa, “anche mediante un richiamo all’illustrazione fatta dagli amministratori nella relazione sulla gestione”.
                Quanto al contenuto dell’informativa, l’OIC 29 prevede, in parte anticipando il testo del decreto, che “nell’illustrazione del fatto intervenuto si fornisce la stima dell’effetto sulla situazione patrimoniale/finanziaria della società, ovvero le ragioni per cui l’effetto non è determinabile”.

                Il DLgs. 139/2015 richiede, poi, nuove informazioni riguardanti l’impresa che redige il bilancio consolidato.
                Nel dettaglio, all’interno dell’art. 2427 comma 1 c.c., vengono inseriti i n. 22-quinquies e 22-sexies, che richiedono di indicare in Nota integrativa il nome e la sede legale dell’impresa che redige il bilancio consolidato dell’insieme più grande e più piccolo di cui l’impresa fa parte in quanto controllata, nonché il luogo in cui è disponibile la copia del bilancio consolidato.

                Infine, all’interno dell’art. 2427 comma 1 c.c., viene inserito il n. 22-septies, che richiede di indicare in Nota integrativa nuove informazioni riguardanti “la proposta di destinazione degli utili o di copertura delle perdite”.
                Le disposizioni esaminate si applicheranno ai bilanci relativi agli esercizi finanziari aventi inizio a partire dal 1° gennaio 2016 e si aggiungono alle modifiche al contenuto della Nota integrativa determinate dalla revisione dei principi di redazione del bilancio (es. principio di rilevanza) oppure dei criteri di valutazione (es. costi di ricerca e pubblicità), di cui si è detto in precedenti interventi.

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                  Il socio «intraprendente» di srl può rispondere dei danni con l’amministratore

                  Problematica l’estensione di responsabilità prevista dall’art. 2476 comma 7 c.c.



                  I soci di srl potrebbero rispondere solidalmente delle malefatte degli amministratori, ex art. 2476 comma 7 c.c., quando, pur consapevoli dell’antigiuridicità delle loro condotte, lo supportano, accettando il rischio che dalle stesse possano derivare danni alla società, ai soci o a terzi. L’amministratore, di contro, non può agire nei confronti del socio per far valere questa forma di coinvolgimento, potendo solo, in presenza di un’azione avviata nei suoi confronti, chiedere l’accertamento del vincolo di solidarietà ai fini del riconoscimento del diritto di regresso. Sono queste le precisazioni fornite dal Tribunale di Roma nella sentenza n. 20844 del 19 ottobre scorso.
                  Rispetto all’art. 2476 comma 7 c.c., i giudici sottolineano, innanzitutto, come la responsabilità imputata agli amministratori venga a gravare anche sui soci, che intenzionalmente abbiano deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi, a prescindere dal fatto che ciò sia avvenuto in forza di un potere loro attribuito per legge o per statuto ovvero semplicemente di fatto ed anche solo in via eventuale.
                  L’intenzionalità, inoltre, deve essere interpretata come mera consapevolezza dell’antigiuridicità dell’atto (deciso o autorizzato), con accettazione del rischio che da tale condotta possano derivare danni alla società, ai soci ed ai terzi (in ottica penale, qui, si potrebbe parlare di dolo eventuale). Rispetto a tale atteggiamento, sottolineano quindi i giudici romani, vanno prese in considerazione tutte le manifestazioni di volontà espresse dai soci, anche in forme non istituzionali e meramente ufficiose, ma comunque tali da evidenziare un’ingerenza o un’influenza sugli amministratori.
                  Diversa, e più favorevole per i soci, la posizione assunta sul tema dal Tribunale di Salerno del 9 marzo 2010. Tale decisione, infatti, ritiene necessario provare che il socio abbia agito con l’intento di cagionare danni (ovvero, sempre in chiave penalistica, occorrerebbe il dolo specifico).
                  Più sfavorevole per i soci, invece, è la ricostruzione proposta dal Tribunale di Milano nell’ordinanza del 9 luglio 2009. Si ritiene, infatti, che l’avverbio intenzionalmente non abbia ad oggetto la decisione o l’autorizzazione, trattandosi di atti comunque di per sé volontari, né riguarda il danno al patrimonio della società, dei soci o dei terzi, né l’illiceità dell’atto amministrativo deciso o autorizzato.

                  Ciò non solo e non tanto perché la prefigurazione di un “animus nocendi” restringerebbe eccessivamente il campo di applicazione della norma, quanto, piuttosto, perché determinerebbe una discrasiarispetto alla responsabilità degli amministratori in solido con i quali è previsto che i soci rispondano, e soprattutto perché sarebbe assurdo escludere la responsabilità per colpa del socio “cogestore” quando questi abbia contribuito al compimento di un atto dannoso mediante decisioni o autorizzazioni addirittura adottate formalmente e, quindi, previo preavviso, con congruo “spatium deliberandi”, e conespressione esplicita della posizione assunta in merito, o nell’esercizio di poteri amministrativi espressamente conferitigli.
                  Il requisito in questione, quindi, deve avere ad oggetto solo la rappresentazione e volontà, da parte del socio, di influire sull’azione dell’amministratore, supportandola, indipendentemente dalla rappresentazione della sua obiettiva illiceità e dannosità, requisiti che ben potranno essere connotati da colpa. Ne consegue che: nelle decisioni e autorizzazioni adottate formalmente, il requisito diviene pleonastico; nelle decisioni e autorizzazioni adottate informalmente, occorrendo solo provare che il socio si sia rappresentato e abbia voluto influire sull’atto gestorio poi compiuto dall’amministratore.
                  In ogni caso, sottolinea il Tribunale di Roma n. 20844/2015, ilcoinvolgimento del socio non può essere fondato contestando atteggiamenti di mera “inerzia” e di mancata attivazione dei poteri di controllo di cui all’art. 2476 comma 2 c.c.; situazioni che possono dipendere da svariati motivi e, in ogni caso, non sono assolutamente conferenti rispetto alla fattispecie in questione (cfr. anche Tribunale di Salerno 9 marzo 2010).
                  La decisione del Tribunale di Roma in commento, infine, si sofferma sui soggetti legittimati ad agire contro i soci ex art. 2476 comma 7 c.c. Dato l’ambito di operatività della norma, è da escludersi che in capo all’amministratore – convenuto perché ritenuto responsabile dei danni verso la società derivanti dall’inosservanza dei doveri ad esso imposti dalla legge e dall’atto costitutivo – possa essere riconosciuta la legittimazione ad agire per ottenere, nell’interesse della società, la condanna in solido del socio, posto che l’articolo in esame regola la situazione in cui concorrono due soggetti a cagionare il danno: l’amministratore, che compie l’atto; il socio, che si ingerisce mediante decisione o autorizzazione nell’attività gestoria dell’amministratore.
                  La condanna in via solidale di tutti i responsabili può essere richiesta solo dal creditore. L’amministratore convenuto, peraltro, può, quale condebitore in solido, chiedere l’accertamento del vincolo di solidarietà ai fini della domanda di regresso “pro quota” (nel medesimo senso App. Milano 18 gennaio 2012 n. 145).

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                    TRANSFER PRICING

                    Approda in Cassazione un’interessante questione concernente la rettifica in aumento da parte dell’Amministrazione finanziaria dei ricavi dichiarati da una Società a seguito della rideterminazione a valore normale dei prezzi di trasferimento da questa praticati nellacessione di beni e prestazioni di servizi alle sue consociate estere.
                    La vicenda che vede coinvolta la sede italiana di una nota compagnia di telecomunicazioniha consentito ai Supremi Giudici la formulazione di principi di diritto nell’ambito di una materia dai tratti ancora piuttosto incerti per l’operatore e molto dibattuta tra gli interpreti, sia in ordine alla natura della disciplina, che viene dalla Corte inquadrata all’interno delle norma a finalità espressamente antielusiva, sia con riguardo ai principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente.Il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, affidato a sei motivi di diritto, coinvolgeva anche ulteriori rilievi frutto dell’attività di verifica prodromica all’accertamento riguardando la rettifica delle perdite dichiarate dalla società, in esito al recupero a tassazione di alcune componenti negative del reddito, ritenute dall'Amministrazione finanziaria indeducibili, nonché la ripresa a tassazione, per l'anno 1998, ai fini IVA, del costo di alcuni servizi di consulenza e ricerca resi ad una consociata estera e ritenuti dall'Ufficio soggetti ad imposizione in Italia ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 3, e del valore di alcune operazioni commerciali ritenute inesistenti.Tuttavia, gli esiti di maggiore valenza ermeneutica la Cassazione li raggiunge proprio con riguardo al rilievo sul transfer pricing che ha stimolato la Corte nella formulazione, con la sentenza n. 16399/2015, di un interessante riparto probatorio tra prova positiva da rendersi a cura dell’attore sostanziale del giudizio tributario (i.e.: Amministrazione finanziaria) e prova contraria ad onere del contribuente/ricorrente.Com’è noto, la disciplina del transfer pricing, ai sensi dell’art.110, co.7, d.P.R. n.917/86 (già art.76, co.5), prevede che i componenti derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, le quali direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società controllante l'impresa nazionale, siano valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti.L’analisi dei prezzi può essere condotta facendo ricorso a metodi di tipo tradizionale(confronto di prezzo, prezzo di rivendita, costo maggiorato) ovvero con metodi alternativi(ripartizione dei profitti globali, comparazione dei profitti, redditività del capitale investito, margini lordi di settore).Nella fattispecie in esame la valutazione di conformità dei prezzi praticati tra le consociateera stata operata alla stregua del metodo del confronto dei prezzi ritenuto, per giunta, non adeguato dai Giudici di merito siccome "è stato fatto, non fra prodotti identici fra loro, mafra quelli appartenenti ad una stessa generica famiglia e non necessariamente simili comestruttura e composizione" i quali avevano, pertanto, concluso considerando “non raggiunta la prova che le transazioni poste in essere dalla parte con le sue consociate estere sianoavvenute a prezzi inferiori al normale".La Corte ha colto l’occasione per ribadire, da un lato, che la disciplina di cui all’art.110 Tuirfissa una clausola antielusiva finalizzata ad evitare trasferimenti di utili mediantel'applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore dei beni scambiati, onde sottrarliall'imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori”, dall’altro, per operare un distinguo in termini di assolvimento dell’onere probatorio a seconda che la rettifica abbia ad oggetto i ricavi dichiarati dalla contribuente ovvero la deducibilità dei costi da questa sostenuti.Sotto il primo profilo la pronuncia chiarisce che, per quanto concerne i componenti positivi del reddito, l'onere di provare la fondatezza della rettifica da transfer pricing incombe sull'Amministrazione finanziaria, secondo le regole generali in materia e che tale onere resta limitato alla dimostrazione dell'esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell'operazione,mentre, con riferimento alle rettifiche dei costi” specificano gli Ermellini “poiché il problema della ripartizione dei costi infragruppo involge anche il profilo dell'inerenza, oltre che quellodell'esistenza, l'onere di fornire la dimostrazione dell'esistenza e dell'inerenza di tali componenti negativi del reddito e, qualora si tratti di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all'Amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può che ricadere, in forza del c.d. "principio di vicinanza alla prova", sul contribuente”.

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                      TRANSFER PRICING

                      Approda in Cassazione un’interessante questione concernente la rettifica in aumento da parte dell’Amministrazione finanziaria dei ricavi dichiarati da una Società a seguito della rideterminazione a valore normale dei prezzi di trasferimento da questa praticati nellacessione di beni e prestazioni di servizi alle sue consociate estere.
                      La vicenda che vede coinvolta la sede italiana di una nota compagnia di telecomunicazioniha consentito ai Supremi Giudici la formulazione di principi di diritto nell’ambito di una materia dai tratti ancora piuttosto incerti per l’operatore e molto dibattuta tra gli interpreti, sia in ordine alla natura della disciplina, che viene dalla Corte inquadrata all’interno delle norma a finalità espressamente antielusiva, sia con riguardo ai principi in tema di ripartizione dell’onere probatorio tra Amministrazione finanziaria e contribuente.Il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, affidato a sei motivi di diritto, coinvolgeva anche ulteriori rilievi frutto dell’attività di verifica prodromica all’accertamento riguardando la rettifica delle perdite dichiarate dalla società, in esito al recupero a tassazione di alcune componenti negative del reddito, ritenute dall'Amministrazione finanziaria indeducibili, nonché la ripresa a tassazione, per l'anno 1998, ai fini IVA, del costo di alcuni servizi di consulenza e ricerca resi ad una consociata estera e ritenuti dall'Ufficio soggetti ad imposizione in Italia ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 7, comma 3, e del valore di alcune operazioni commerciali ritenute inesistenti.Tuttavia, gli esiti di maggiore valenza ermeneutica la Cassazione li raggiunge proprio con riguardo al rilievo sul transfer pricing che ha stimolato la Corte nella formulazione, con la sentenza n. 16399/2015, di un interessante riparto probatorio tra prova positiva da rendersi a cura dell’attore sostanziale del giudizio tributario (i.e.: Amministrazione finanziaria) e prova contraria ad onere del contribuente/ricorrente.Com’è noto, la disciplina del transfer pricing, ai sensi dell’art.110, co.7, d.P.R. n.917/86 (già art.76, co.5), prevede che i componenti derivanti da operazioni con società non residenti nel territorio dello Stato, le quali direttamente o indirettamente controllano l'impresa o ne sono controllate o sono controllate dalla stessa società controllante l'impresa nazionale, siano valutati in base al "valore normale" dei beni ceduti, dei servizi prestati e dei beni ricevuti.L’analisi dei prezzi può essere condotta facendo ricorso a metodi di tipo tradizionale(confronto di prezzo, prezzo di rivendita, costo maggiorato) ovvero con metodi alternativi(ripartizione dei profitti globali, comparazione dei profitti, redditività del capitale investito, margini lordi di settore).Nella fattispecie in esame la valutazione di conformità dei prezzi praticati tra le consociateera stata operata alla stregua del metodo del confronto dei prezzi ritenuto, per giunta, non adeguato dai Giudici di merito siccome "è stato fatto, non fra prodotti identici fra loro, mafra quelli appartenenti ad una stessa generica famiglia e non necessariamente simili comestruttura e composizione" i quali avevano, pertanto, concluso considerando “non raggiunta la prova che le transazioni poste in essere dalla parte con le sue consociate estere sianoavvenute a prezzi inferiori al normale".La Corte ha colto l’occasione per ribadire, da un lato, che la disciplina di cui all’art.110 Tuirfissa una clausola antielusiva finalizzata ad evitare trasferimenti di utili mediantel'applicazione di prezzi inferiori o superiori al valore dei beni scambiati, onde sottrarliall'imposizione fiscale in Italia a favore di tassazioni estere inferiori”, dall’altro, per operare un distinguo in termini di assolvimento dell’onere probatorio a seconda che la rettifica abbia ad oggetto i ricavi dichiarati dalla contribuente ovvero la deducibilità dei costi da questa sostenuti.Sotto il primo profilo la pronuncia chiarisce che, per quanto concerne i componenti positivi del reddito, l'onere di provare la fondatezza della rettifica da transfer pricing incombe sull'Amministrazione finanziaria, secondo le regole generali in materia e che tale onere resta limitato alla dimostrazione dell'esistenza di transazioni tra imprese collegate e dello scostamento evidente tra il corrispettivo pattuito e quello di mercato (valore normale), non essendo tale onere esteso alla prova della funzione elusiva dell'operazione,mentre, con riferimento alle rettifiche dei costi” specificano gli Ermellini “poiché il problema della ripartizione dei costi infragruppo involge anche il profilo dell'inerenza, oltre che quellodell'esistenza, l'onere di fornire la dimostrazione dell'esistenza e dell'inerenza di tali componenti negativi del reddito e, qualora si tratti di costi derivanti da servizi o beni prestati o ceduti da una società controllante estera ad una controllata italiana, anche di ogni elemento che consenta all'Amministrazione di verificare il normale valore dei relativi corrispettivi, non può che ricadere, in forza del c.d. "principio di vicinanza alla prova", sul contribuente”.
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                      La Sezione tributaria della Corte di cassazione, con sentenza n. 16399/2015, detta alcuni chiarimenti in materiadi onere probatorio con riferimento al ‘‘transfer pricing’’ e afferma altresı` che tale disciplina fissa una clausolaantielusiva finalizzata ad evitare trasferimenti di utili mediante l’applicazione di prezzi inferiori o superiori al valoredei beni scambiati, che tuttavia non richiede la dimostrazione da parte dell’Agenzia delle entrate dell’emersionedi un vantaggio fiscale indebito.

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