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Il valigione del tirocinante

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    Cartelle. Nulla intimazione di pagamento

    L’intimazione di pagamento è nulla quando non è preceduta dalla regolare notifica della cartella di pagamento. È quanto emerge dalla sentenza n. 10974/23/15 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, che ha accolto il ricorso proposto da una contribuente, avverso l'intimazione di pagamento notificata da Equitalia per debiti erariali (IRPEF anno 2005).

    Il Collegio partenopeo ha disatteso la tesi del concessionario circa l’inammissibilità del gravame per il fatto che l'intimazione di pagamento non rientra nell'elenco degli atti di cui all'art. 19 del D.Lgs. n. 546 del 1992, mentre ha ritenuto fondata l’eccezione della ricorrente d’invalidità dell'intimazione non preceduta dalla notificazione della prodromica cartella di pagamento.

    La CTP di Napoli ha rilevato, innanzitutto, che in tema di contenzioso tributario è possibile l’impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall'art. 19 del D.Lgs. n. 546/92, che, tuttavia, sia espressivo di una pretesa tributaria ormai definita (cfr. Cass. Sez. trib. sentenza 11 febbraio 2015 n. 2616). Secondo la Corte di Cassazione, inoltre, "a norma dell'art 2 del D.Lgs. n. 546 del 1992, come modificato dall'art. 12 L. n. 448 del 2001, sono sottratte alla giurisdizione del giudice tributario le sole controversie attinenti alla fase dell'esecuzione forzata; ne consegue, pertanto, che l'impugnazione degli atti prodromici quali la cartella esattoriale o l'avviso di mora o l'intimazione di pagamento ex art. 50 del D.P.R. n. 602 del 1973 è devoluta alla cognizione delle commissioni Tributarie" (cfr. Cassazione civile sez. un. 27 gennaio 2011 n. 1865).

    Fatta questa premessa, la CTP afferma che “la circostanza relativa alla omessa notifica della previa cartella di pagamento assume rilievo dirimente”, posto che, per la Cassazione, “la mancala notificazione della cartella di pagamento comporta un vizio della sequenza procedimentale dettata dalla legge, la cui rilevanza non è esclusa dalla possibilità, riconosciuta al contribuente dall'art. 19, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, di esercitare il proprio diritto di difesa a seguito della notificazione dell'avviso di mora, e che consente dunque al contribuente di impugnare quest'ultimo atto, deducendone la nullità per omessa notifica dell'atto presupposto o contestando, in via alternativa, la stessa pretesa tributaria azionata nei suoi confronti”.

    Costituzione in ritardo di Equitalia. Nel caso di specie, Equitalia non ha potuto dimostrare la regolare notifica della cartella di pagamento essendosi costituita con ritardo. Infatti la CTP non ha preso in considerazione, ai fini della decisione, né l’estratto di ruolo né la copia della relata di notifica della cartella di pagamento prodotti dal concessionario perché, a mente di quanto statuito dall'art. 23 del D.Lgs. n. 546 del 1992, “l’ufficio del Ministero delle finanze, l'ente locale o il concessionario del servizio di riscossione nei cui confronti è stato proposto il ricorso si costituiscono in giudizio entro sessanta giorni dal giorno in cui il ricorso è stato notificato, consegnato o ricevuto a mezzo del servizio postale”. L'art. 32 del medesimo decreto a sua volta prevede che “le parti possono depositare documenti fino a venti giorni liberi prima della data di trattazione osservato l'art. 24, comma 1”. Orbene, secondo condivisibile orientamento della giurisprudenza tributaria, il termine previsto dall'art. 23, comma 1, D.Lgs. n. 546/72 per la costituzione in giudizio della parte resistente è da considerarsi non perentorio e pertanto il resistente è da considerarsi legittimamente costituito. Per quanto riguarda invece la memoria e la documentazione presentata dal resistente con la costituzione in giudizio, “devono considerarsi tardive, ai sensi dell'art. 32, sì che non possono essere prese in considerazione ai fini della decisione” (cfr. CTP Torino n. 29/06/14).

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      Retribuzioni convenzionali: quando sono applicabili?

      È frequente il caso del contribuente fiscalmente residente in Italia che lavora all’estero e nella stragrande maggioranza dei casi il datore di lavoro è fiscalmente residente nel Paese di svolgimento dell’attività lavorativa.

      Per tale fattispecie, il primo controllo da porre in essere riguarda l’applicabilità o meno delle retribuzioni convenzionali.

      Fondamentale la residenza in Italia - Al riguardo, va in primo luogo precisato che la normativa si rivolge a quei lavoratori che, pur svolgendo l’attività lavorativa all’estero, in base all’articolo 2 del TUIR continuano a essere qualificati come residenti fiscali in Italia.

      Si ricorda che ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti:
      • le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
      • le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno nel territorio dello Stato il domicilio ai sensi del codice civile;
      • le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la residenza ai sensi del codice civile.

      Resta fermo, comunque, che la normativa non troverà applicazione qualora il contribuente presti la propria attività lavorativa in uno Stato con il quale l’Italia ha stipulato un accordo per evitare le doppie imposizioni e lo stesso preveda per il reddito di lavoro dipendente la tassazione esclusivamente nel Paese estero. In questo caso la normativa della convenzione prevale sulle disposizioni fiscali interne.

      Le condizioni per l’applicazione delle retribuzioni convenzionali – Le retribuzioni convenzionali sono applicabili anche per il contribuente italiano che lavora all’estero per conto di un datore di lavoro estero che non assolva a suo favore gli obblighi contributivi.
      Ciò è stato confermato sia con C.M. n. 50/E del 2002, par. 18, che con la C.M. 11/E/2014, in cui è stato precisato che il soggetto residente che versi nelle condizioni previste dall’articolo 51, comma 8-bis), del TUIR, è tenuto a dichiarare il reddito convenzionale nella misura in cui è definito annualmente con il decreto del Ministro del Lavoro e della previdenza sociale (ora Ministro del Lavoro e delle politiche sociali), ancorché non sia presente in Italia alcun soggetto che adempia, in suo favore, gli obblighi contributivi.
      Affinché si applichino le retribuzioni convenzionali in luogo del reddito effettivamente percepito, si devono verificare le condizioni di seguito riportate, oltreché la indispensabile condizioni della residenza fiscale in Italia:

      • svolgimento lavoro all’estero in via continuativa;
      • lavoro oggetto esclusivo del rapporto;
      • soggiorno all’estero per un periodo superiore a 183 giorni.

      Qualora una delle suddette condizioni non sia verificata, non potrà trovare applicazione la retribuzione Convenzionale ma la tassazione avverrà sul reddito effettivamente percepito.

      Per quanto concerne il requisito della continuità, lo stesso impone che l'attività lavorativa sia svolta all'estero per un determinato periodo di tempo con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità.

      Ulteriore condizione per l'applicabilità del criterio di determinazione convenzionale del reddito di lavoro dipendente di cui all'art. 51, comma 8-bis, del Tuir, è che l'attività lavorativa sia svolta all'estero comeoggetto esclusivo del rapporto di lavoro. In altri termini, l'esecuzione della prestazione lavorativa deve essere integralmente svolta all'estero.

      Per quanto concerne il computo dei giorni di effettiva permanenza del lavoratore all’estero, l’Amministrazione Finanziaria nella C.M. 207/E/200 ha chiarito che il periodo da considerare non necessariamente deve risultare continuativo: è sufficiente che il lavoratore presti la propria opera all’estero per un minimo di 183 giorni nell’arco di dodici mesi.

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        Società di comodo: congruità dei canoni da dimostrare

        La congruità dei canoni di canoni di affitto di immobili e rami d’azienda salva dalla non operatività. È questo un importante aspetto emerso dalla riposta resa dal DRE Emilia-Romagna nei giorni scorsi (prot. n. 909-424/2015).

        L’interpello disapplicativo
        In questi giorni stanno giungendo le ultime risposte alle istanze di interpello disapplicativo presentate per sfuggire alla disciplina delle società di comodo.

        Particolare rilevanza assume la risposta fornita dalla DRE Emilia-Romagna a una società che svolge attività di affitto di rami d’azienda e immobili, la quale dichiara dei ricavi non sufficienti al fine del superamento del test di operatività.

        Tuttavia, la società, in sede di interpello dimostra che i canoni sono congrui, non solo per mezzo del confronto con i valori OMI presenti nella banca dati dell’Agenzia delle Entrate, ma anche rivolgendosi a una società specializzata nelle indagini di mercato sulle locazioni commerciali per il rilascio di un parere attendibile.

        La risposta dell’Agenzia delle Entrate

        L’Agenzia delle Entrate “esaminata l’istanza e la documentazione allegata, ritiene che la società istante abbia illustrato la propria attività immobiliare di gestione attiva soprattutto nell’affitto di aziende commerciali o di rami di esse.
        Nella documentazione esibita si evince che la società ha locato le proprie aziende a prezzi congrui a quelli di mercato, come si evince sia dalla perizia di stima presentata, sia dal confronto con i canoni pubblicati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare, effettuato per la componente fabbricati
        ”.

        L’Agenzia delle Entrate, nell’accogliere l’istanza, prosegue inoltre precisando che assoluto rilievo deve essere conferito al fatto che la società ha dimostrato con apposita documentazione le attività svolte per locare la porzione di immobile di cui è in possesso e che risulta ancora sfitto.

        Società di comodo
        La questione oggetto dell’istanza di interpello si pone come estremamente rilevante, in quanto sono moltissime le società che, svolgendo questa tipologia di attività, non sono in grado di superare il test di operatività.

        Al fine di sfuggire alle penalizzazioni previste ai fini Iva, Ires e Irap risulta pertanto necessario presentare apposita istanza all’Agenzia delle Entrate e, alla luce della risposta fornita all’interpello in commento, assoluta rilevanza assume la presentazione di apposita documentazione, quale:

        - lo studio di mercato effettuato da una società specializzata, la quale si è pronunciata sulla congruità dei canoni;

        - un’analisi volta al confronto tra i canoni di locazione praticati e i valori della banca dati OMI per la zona interessata.

        L’Agenzia delle Entrate ignora invece la puntuale ricostruzione del contribuente volta all’individuazione delle percentuali di redditività da applicare ai cespiti aziendali.

        Nell’istanza presentata viene infatti richiesto di poter applicare la percentuale del 6% in luogo di quella del 15% alle immobilizzazioni immateriali costituite dall’avviamento e dagli oneri pluriennali relativi alle aziende affittate. Ciò in quanto si ritiene corretto considerare gli oneri in oggetto non come immobilizzazioni immateriali in sé, ma come elementi accessori degli immobili stessi.

        Viene altresì richiesto che la base di calcolo possa essere riparametrata, riproporzionando il valore degli assets ai mq effettivamente concessi in affitto, eliminando invece la parte relativa ai beni privi di redditività.

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          "off topic"

          Pignoramento pensioni e stipendi per insolvenza: nuovi limiti


          Premessa – Sul Supplemento Ordinario n. 50 alla Gazzetta Ufficiale n. 192 del 20 agosto 2015, è stata pubblicata la Legge n. 132/2015 di conversione con modificazioni del Decreto Legge n. 83/2015, che introduce importanti novità in materia fallimentare, civile, processuale civile e di organizzazione e funzionamento dell’amministrazione giudiziaria, oltreché in materia fallimentare.

          Tra le tante novità introdotte, ci sono i nuovi limiti riguardanti la pignorabilità delle pensioni e stipendi (art. 13 lett. l) da parte dei creditori in caso di insolvenza del soggetto debitore.
          I nuovi limiti di pignorabilità, sia per le pensioni sia per gli stipendi si applicano a decorrere dai pignoramenti successivi il 27 giugno 2015, vale a dire dai pignoramenti notificati oltre tale data.

          Per i pignoramenti notificati fino al 27 giugno 2015 continuano ad applicarsi le vecchie regole.

          I vecchi limiti di pignorabilità sulla pensione – Per le procedure esecutive iniziate prima del 27 giugno 2015, le vecchie regole prevedevano che:
          1) se l’atto di pignoramento veniva notificato alla banca o posta dove il soggetto debitore aveva l’accredito della pensione, non c’era alcun limite di pignorabilità, ma il pignoramento poteva avvenire su tutte le somme disponibili (comprese quelle che vi sarebbero state accreditate sino alla data dell’udienza di assegnazione), eccetto l’ultimo accredito di pensione. Le somme disponibili sul conto tornavano a disposizione del debitore dopo l’udienza di assegnazione;
          2) se l’atto di pignoramento veniva notificato direttamente all’istituto di previdenza (INPS), quindi prima che il rateo di pensione venisse erogato, il pignoramento poteva avvenire:

          • nella generalità dei casi nel limite di 1/5 dell’importo della pensione;
          • nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o dal giudice delegato per i crediti alimentari;
          • nel limite di 1/5 per i crediti dello Stato, Province o Comuni;
          • fino alla metà della base pignorabile in caso di pignoramento in concorso di più cause creditorie (alimenti, tributi, ecc.).

          I nuovi limiti di pignorabilità sulla pensione – Per gli atti di pignoramento notificato dopo il 27 giugno 2015, le nuove regole prevedono che:
          1) se l’atto di pignoramento è notificato alla banca o posta dove il soggetto debitore ha l’accredito della pensione:
          • per le mensilità accreditate su conto prima dell’esecuzione del pignoramento è fissato il limite di impignorabilità pari al triplo dell’assegno sociale. Poiché per il 2015 l’assegno sociale è fissato in 448,52, ne deriva che il creditore, per gli atti di pignoramento notificati dopo il 27/06, può pignorare l’importo eccedente 1.345,56 euro (448,52 x3);
          • per le mensilità accreditate sul conto nel giorno del pignoramento o nei giorni successivi valgono i vecchi limiti previsti nel caso in cui l’atto di pignoramento era notificato direttamente all’istituto previdenziale;
          2) se l’atto di pignoramento è notificato direttamente all’istituto di previdenza (INPS), quindi prima che il rateo di pensione venga erogato, il pignoramento può avvenire solo sulla parte dell’emolumento che eccede l’ammontare dell’assegno sociale aumentato della metà. Quindi, poiché l’assegno sociale per il 2015 è pari a 448,52, il limite di impignorabilità è dato da 672,78 ossia [448,52 + (448,52/2)]. La parte eccedente tale limite è pignorabile nei vecchi limiti (nella generalità dei casi nella misura di 1/5; per i crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o dal giudice delegato, ecc.).

          I vecchi limiti di pignorabilità sullo stipendio – Anche per gli stipendi, per le procedure esecutive iniziate prima del 27 giugno 2015, le vecchie regole prevedevano che:
          1) se l’atto di pignoramento era notificato alla banca o posta dove il soggetto debitore aveva l’accredito dello stipendio, non c’era alcun limite di pignorabilità, ma il pignoramento poteva avvenire sulle somme già disponibili (comprese quelle che vi sarebbero state accreditate sino alla data dell’udienza di assegnazione), eccetto l’ultimo accredito;
          2) se l’atto di pignoramento era notificato direttamente al datore di lavoro, e quindi prima che lo stipendio venisse accreditato, il pignoramento poteva avvenire:
          • nella generalità dei casi nel limite di 1/5 dell’importo dell’emolumento;
          • per i crediti alimentari nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o dal giudice delegato;
          • le limite di 1/5 per i crediti dello Stato, Province o Comuni;
          • fino alla metà della base pignorabile in caso di pignoramento in concorso di più cause (alimenti, tributi, ecc.).

          I nuovi limiti di pignorabilità sullo stipendio – Per gli atti di pignoramento notificati dopo il 27 giugno 2015, le nuove regole prevedono che:
          1) se l’atto di pignoramento è notificato alla banca o posta dove il soggetto debitore ha l’accredito dello stipendio:
          • per le mensilità accreditate sul conto prima dell’esecuzione del pignoramento è fissato il limite di impignorabilità pari al triplo dell’assegno sociale. Poiché per il 2015 l’assegno sociale è fissato in 448,52, ne deriva che il creditore, per gli atti di pignoramento notificati dopo il 27/06, può pignorare l’importo eccedente 1.345,56 euro (448,52 x3);
          • per le mensilità accreditate sul conto nel giorno del pignoramento o nei giorni successivi valgono i vecchi limiti previsti nel caso in cui l’atto di pignoramento era notificato direttamente al datore di lavoro;
          2) se il pignoramento è notificato direttamente al datore di lavoro e l’accredito dello stipendio avviene alla data del pignoramento o successivamente, valgono i vecchi limiti (1/5 nella generalità dei casi; nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o dal giudice delegato per i crediti alimentari; ecc.).

          Violazioni nel pignoramento - Il pignoramento eseguito in violazione dei divieti e oltre i limiti previsti dallo stesso e dalle speciali disposizioni di legge è parzialmente inefficace e l’inefficacia (parziale) è rilevata dal giudice anche d’ufficio.

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            sanzioni penali
            http://www.fiscooggi.it/files/u41/ra...5.09.25_03.pdf

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              cessione d'azienda (brrrrrrr)
              http://www.fiscooggi.it/files/u41/ra...5.09.25_04.pdf

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                off topic
                http://www.fiscooggi.it/files/u41/ra...5.09.25_06.pdf
                http://www.fiscooggi.it/files/u41/ra...5.09.25_06.pdf
                http://www.libertas.sm/cont/news/max...l#.VgUvkNLtmko

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                  Riforma sanzioni amministrative. Le novità in ambito studi di settore

                  Con l’approvazione definitiva del decreto di riforma sulle sanzioni amministrative, la cui entrata in vigore è stata rinviata al prossimo primo gennaio 2017, sono state riviste al ribasso le penalità stabilite in tema di violazioni legate alla compilazione e all’invio dei modelli riguardanti gli studi di settore.
                  In quest’ambito si devono segnalare, essenzialmente, le seguenti modifiche:
                  • aggiornamento della sanzione in misura fissa prevista in tema di omessa presentazione del modello, che passa da € 2.065 (sanzione originariamente espressa in lire) a euro 2.000;
                  • la scomparsa delle specifiche sanzioni previste in tema di studi di settore.

                  Infedele compilazione
                  Nell’ipotesi di infedele compilazione del modello Studi di settore, o di non corretta indicazione di una causa di esclusione/inapplicabilità prima della modifica (ovvero fino al 31.12.2016) si continuerà ad applicare la sanzione amministrativa dal 110 al 220% della maggiore imposta che è dovuta solo se il maggior reddito contestato dall’amministrazione supera il 10% di quello dichiarato (in caso contrario la sanzione rimane quella base dal 100% al 200%).
                  Con la riforma, invece, si applicherà sempre la sanzione amministrativa dal 90% al 180% indipendentemente dall’entità del maggior reddito evaso.
                  Inoltre, in questo caso, solo in caso di accertamento, le sanzioni potranno essere ulteriormente ridotte ad 1/3 (dal 30 al 60%) se l’imposta accertata è inferiore al 3% di quella dichiarata e comunque non supera € 30.000.

                  Omessa presentazione
                  Nell’ipotesi in cui venga segnalata l’omessa presentazione del modello studi di settore, attualmente è prevista una specifica sanzione maggiorata rispetto a quella ordinaria.
                  Se il mancato inoltro da parte del contribuente persiste anche a seguito di specifico invito da parte dell’amministrazione, sia che tale richiesta sia contenuta nella ricevuta di invio telematico sia che la stessa sia frutto di una notifica ad hoc da parte dell’Amministrazione finanziaria, è prevista l’applicazione della sanzione amministrativa dal 150 al 300% della maggiore imposta dovuta a patto che il maggior reddito contestato superi il 10% di quello dichiarato.
                  Con l’entrata in vigore della riforma, invece, si applicherà, sempre la sanzione amministrativa “base” dal 90% al 180% indipendentemente dall’entità del maggior reddito evaso.
                  Scompare così anche in questo caso la penalità specifica prevista in tema di studi di settore.
                  Inoltre va evidenziato, come visto sopra in caso di infedele compilazione, che le sanzioni vengono ridotte ad 1/3 (dal 30 al 60%) se l’imposta accertata rimane inferiore al 3% di quella dichiarata e comunque non supera € 30.000.
                  In quest’ambito si ricorda che, in caso di omessa presentazione del modello studi di settore ed in assenza di un maggior reddito accertato, la sanzione si applica in misura fissa che come sopra indicato attualmente è pari ad € 2.065, ma che dal 1° gennaio 2017 sarà pari ad € 2.000.

                  Condotte fraudolente
                  Va tuttavia segnalato che anche in tema di studi di settore la sanzione base (dal 90 al 180%) potrebbe raddoppiare nell’ipotesi in cui la violazione è realizzata mediante “l’utilizzo di documentazione falsa o per operazioni inesistenti, mediante artifici, raggiri, condotte simulatorie o fraudolente”. Tale ipotesi ricorre, ad esempio nei casi in cui il contribuente abbia volutamente indicato alcuni costi (in quadro F dei dati contabili del modello) in righi diversi da quelli di competenza al solo scopo di alterare il risultato stimato da Gerico per ricavarne un risultato di congruità.

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                    Novità per il contenzioso

                    Sentenze tributarie subito esecutive e reclamo esteso agli atti degli agenti della riscossione

                    Lo scorso 22 settembre il Consiglio dei Ministri ha approvato definitivamente cinque decreti legislativi di attuazione della delega per il riordino del sistema fiscale (L. n. 23/14) tra cui il decreto recante misure per la revisione del contenzioso tributario.

                    Nel decreto di riforma del contenzioso tributario rivestono un ruolo di primo piano le disposizioni in materia di reclamo-mediazione, conciliazione in udienza ed esecutività delle sentenze di condanna in favore del contribuente.

                    Al fine di ridurre il contenzioso tributario è stato potenziato l’istituto del reclamo-mediazione ex art. 17-bis D.Lgs. n. 74/2000.

                    Tale strumento deflattivo, a oggi, riguarda gli atti riferibili all’Agenzia delle Entrate con valore non superiore a 20.000 euro (valore da calcolare ai sensi dell’art. 12, co. 5, D.Lgs. n. 546/92), ma per effetto del decreto di attuazione della delega fiscale esso varrà anche per gli atti emessi dagli altri enti impositori, nonché dagli agenti della riscossione e dai cosiddetti concessionari locali. La procedura di reclamo-mediazione, poi, sarà estesa alle controversie sul classamento che finora erano escluse dalla procedura a causa del loro valore indeterminabile. Continueranno, invece, a non essere reclamabili le liti su atti relativi al recupero di aiuti di Stato dichiarati incompatibili ex art. 47-bis D.Lgs. n. 546/92.

                    Laddove si giunga a un accordo di mediazione con l’ente impositore e/o con l’agente della riscossione, il contribuente beneficerà non più della riduzione al quaranta per cento delle sanzioni irrogabili in relazione all’ammontare del tributo risultante dalla mediazione stessa, ma del trentacinque per cento del minimo edittale.

                    Per quanto concerne le novità in materia di conciliazione giudiziale, si segnala l’estensione dell’istituto al giudizio d’appello (fino a ora riguardava solo le cause di primo grado).

                    Dal 1° gennaio 2016 sarà possibile conciliare la lite non più, improrogabilmente, entro il termine della prima udienza di trattazione della controversia dinanzi alla CTP, ma entro il termine di trattazione dell’appello. Cambierà, tuttavia, il regime sanzionatorio: qualora il perfezionamento della conciliazione avvenga nel corso del primo grado di giudizio, le sanzioni si applicano nella misura del quaranta per cento del minimo previsto dalla legge, mentre il perfezionamento della conciliazione nel corso del giudizio d’appello comporterà l’applicazione delle sanzioni nella misura del cinquanta per cento del minimo previsto dalla legge.

                    Per quanto riguarda, infine, l’esecutività delle sentenze tributarie in favore del contribuente, in caso d’importi dovuti superiori a 10mila euro, il giudice, tenuto conto della solvibilità dell’istante, potrà subordinare il pagamento alla richiesta idonea garanzia. I costi della garanzia anticipati dal contribuente saranno a carico della parte soccombente all’esito definitivo del giudizio. Il pagamento delle somme dovute al contribuente dovrà avvenire entro novanta giorni dalla notificazione della sentenza o dalla prestazione della garanzia. Possibile il giudizio di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. n. 546/92).

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