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L'angolo di ROL

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    Originariamente inviato da strelizia Visualizza il messaggio

    Cess...che stile!
    avevo messo l'acetata ma poi sarebbe stato troppo...pure per me . Ho optato per una tuta meno invasiva ..

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      http://www.corrieredellacalabria.it/...lla-cremazione

      a perd timp.Non ha mai detto nulla da vivo, perchè dovrebbe farlo da morto?

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        Giulio Cavalli

        Eccolo. L'articolo del NY Times su Giulio Regeni. In italiano, per i duri d'orecchie.

        (eccolo il tanto discusso articolo su Giulio Regeni del New York Times. Il quotidiano USA ha deciso di pubblicarlo tradotto in italiano. Si vede che hanno avuto il dubbio che fossero problemi di lingua, mica di mancata volontà)
        Quel giorno di novembre 2015 l’obiettivo della polizia egiziana erano i venditori ambulanti di calzini, occhiali da sole da 2 dollari e gioielli finti, raggruppati sotto i portici degli eleganti edifici secolari di Heliopolis, un sobborgo del Cairo. Blitz come questo erano di routine, ma questi venditori occupavano una zona particolarmente sensibile. A solo una novantina di metri di distanza si trova il palazzo riccamente decorato nel quale il Presidente dell’Egitto, l’autoritario leader militare Abdel Fattah el-Sisi, accoglie i dignitari stranieri. Mentre gli uomini raccoglievano in fretta le lore cose dai tappetini e dai portoni, preparandosi a fuggire, avevano tra loro un assistente improbabile: un ricercatore universitario italiano di nome Giulio Regeni.
        Giulio era arrivato al Cairo pochi mesi prima per condurre ricerche per il suo dottorato a Cambridge. Cresciuto in un piccolo paese vicino a Trieste da un padre rappresentante e da una madre insegnante, Regeni, un ventottenne di sinistra, era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario della Primavera Araba. Nel 2011, quando erano esplose le manifestazioni di Piazza Tahrir che condussero alla caduta del Presidente Hosni Mubarak, stava finendo il suo corso di laurea in arabo e scienze politiche all’università di Leeds. Si trovava al Cairo nel 2013 come stagista per un’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di manifestazioni portarono le forze armate a cacciare il presidente egiziano recentemente eletto, l’Islamista Mohamed Morsi, e a mettere al potere al-Sisi. Come molti egiziani divenuti ostili al governo troppo invadente di Morsi, Regeni apprezzò questo sviluppo. “Fa parte del processo rivoluzionario,” scrisse ad un amico inglese, Bernard Goyder, all’inizio di agosto. In seguito, meno di due settimane dopo, le forze di sicurezza di al-Sisi uccisero 800 sostenitori di Morsi in un solo giorno, il peggior massacro voluto dallo stato nella storia dell’Egitto. Fu l’inizio di una lunga spirale di repressione. Regeni presto partì per l’Inghilterra, dove cominciò a lavorare per Oxford Analytica, un’azienda di analisi e ricerca.
        Da lontano, Regeni seguiva con attenzione il governo di al-Sisi. Scriveva rapporti sul Nord Africa, analizzando tendenze politiche ed economiche, e in capo a un’anno aveva risparmiato abbastanza soldi da poter iniziare il dottorato in studi dello sviluppo a Cambridge. Decise di concentrarsi sui sindacati indipendenti egiziani — la cui serie di scioperi senza precedenti iniziati nel 2006 aveva predisposto il popolo egiziano alla rivolta contro Mubarak. Adesso con la Primavera araba a pezzi, Regeni vedeva i sindacati come fragile speranza per la maltrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011, il loro numero era esploso, passando da quattro a migliaia. C’erano sindacati per ogni cosa: macellai, assistenti di teatro, scavatori di pozzi e minatori, addetti alla riscossione delle bollette del gas e comparse nelle telenovelas trash che andavano in onda durante il mese santo del Ramadan. C’era anche un sindacato indipendente dei nani. Guidato dalla sua relatrice, una nota professoressa egiziana di Cambridge che aveva scritto in modo critico su al-Sisi, Regeni scelse di studiare i venditori ambulanti — giovani uomini provenienti da paesini lontani che si ingegnavano per sopravvivere sui marciapiedi del Cairo. Regeni si immerse nel loro mondo sperando di valutare il potenziale del loro sindacato nella guida del cambiamento politico e sociale.
        Però con l’arrivo del 2015 quel tipo di immersione culturale, preferito a lungo da arabisti in erba, non era più facile come prima. Una coltre di sospetti era caduta sul Cairo. La stampa era stata ridotta al silenzio, avvocati e giornalisti venivano regolarmente molestati e gli informatori riempivano i caffè del centro del Cairo. La polizia fece un blitz nell’ufficio in cui Regeni conduceva le sue interviste; folli storie di cospirazioni straniere andavano regolarmente in onda sui canali televisivi del governo.
        Regeni non si fece scoraggiare. Parlava cinque lingue, era insaziabilmente curioso e aveva un fascino poco appariscente che gli aveva attirato un‘ampia cerchia di amici. Dai 12 ai 14 anni, era stato il sindaco dei piccoli della sua cittadina natale, Fiumicello. Teneva molto alla sua capacità di navigare culture diverse e gli piaceva la vita disordinata delle strade del Cairo: i caffè fumosi, l’attività frenetica e infinita, le barche colorate come caramelle che la sera navigavano sul Nilo. Si registrò come ricercatore esterno presso l’American University del Cairo e trovò una stanza a Dokki, un quartiere strozzato dal traffico tra le piramidi ed il Nilo, dove condivideva un appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che un insegnante di tedesco, e Mohamed El Sayad, avvocato in uno dei più antichi studi legali del Cairo. Dokki non era una zona alla moda, però si trovava a due sole fermate di metropolitana dal centro del Cairo, con i suoi labirinti di alberghi economici, bettole e isolati di appartamenti fatiscenti che circondano Piazza Tahrir. In breve, Regeni aveva fatto amicizia con scrittori ed artisti e perfezionava il suo arabo da Abou Tarek, un emporio di quattro piani illuminato con luci al neon che è il posto più famoso del Cairo per il koshary, il piatto tradizionale egiziano di riso, lenticchie e pasta.
        Passava le ore a intervistare venditori di strada a Heliopolis e nel piccolo mercato dietro la stazione Ramses. Per ottenere la loro fiducia, mangiava dagli stessi carretti sporchi dei suoi interlocutori; il supervisore accademico di Regeni all’American University lo avvertì che si sarebbe procurato un’intossicazione alimentare. A Regeni non interessava: si muoveva attraverso il Cairo con una tranquilla aura di determinazione.
        Per caso venne al Cairo per lavoro Valeriia Vitynska, un’ucraina che Giulio aveva conosciuto a Berlino quattro anni prima. I due riallacciarono i rapporti. “Era più bella di quanto ricordassi,” scrisse in un messaggio ad un amico. Fecero un viaggio sul Mar Rosso e quando lei tornò al suo lavoro a Kiev, continuarono la loro relazione via Skype. “Era molto intenso e bello,” mi ha detto l’amica di Regeni Paz Zàrate, “Lui era gioioso, pieno di speranza per il futuro.”
        Tuttavia Regeni era cosciente dei pericoli del Cairo. “È molto deprimente,” scrisse a Goyder dopo un mese di soggiorno. “Tutti sono super-consapevoli dei giochi in atto.” A dicembre partecipò ad un incontro di attivisti sindacali e scrisse di questa esperienza per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante l’incontro, disse ad amici di aver notato una ragazza velata che gli scattava foto con il cellulare. Era stato inquietante. Regeni si lamentò con i suoi amici che alcuni venditori ambulanti lo infastidivano per chiedergli favori, come per esempio cellulari nuovi. E poi il rapporto con il suo contatto principale, un uomo massiccio di circa quarant’anni di nome Mohamed Abdullah, prese una strana piega.

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          uel giorno di novembre 2015 l’obiettivo della polizia egiziana erano i venditori ambulanti di calzini, occhiali da sole da 2 dollari e gioielli finti, raggruppati sotto i portici degli eleganti edifici secolari di Heliopolis, un sobborgo del Cairo. Blitz come questo erano di routine, ma questi venditori occupavano una zona particolarmente sensibile. A solo una novantina di metri di distanza si trova il palazzo riccamente decorato nel quale il Presidente dell’Egitto, l’autoritario leader militare Abdel Fattah el-Sisi, accoglie i dignitari stranieri. Mentre gli uomini raccoglievano in fretta le lore cose dai tappetini e dai portoni, preparandosi a fuggire, avevano tra loro un assistente improbabile: un ricercatore universitario italiano di nome Giulio Regeni.

          Giulio era arrivato al Cairo pochi mesi prima per condurre ricerche per il suo dottorato a Cambridge. Cresciuto in un piccolo paese vicino a Trieste da un padre rappresentante e da una madre insegnante, Regeni, un ventottenne di sinistra, era rimasto affascinato dallo spirito rivoluzionario della Primavera Araba. Nel 2011, quando erano esplose le manifestazioni di Piazza Tahrir che condussero alla caduta del Presidente Hosni Mubarak, stava finendo il suo corso di laurea in arabo e scienze politiche all’università di Leeds. Si trovava al Cairo nel 2013 come stagista per un’agenzia delle Nazioni Unite, quando una seconda ondata di manifestazioni portarono le forze armate a cacciare il presidente egiziano recentemente eletto, l’Islamista Mohamed Morsi, e a mettere al potere al-Sisi. Come molti egiziani divenuti ostili al governo troppo invadente di Morsi, Regeni apprezzò questo sviluppo. “Fa parte del processo rivoluzionario,” scrisse ad un amico inglese, Bernard Goyder, all’inizio di agosto. In seguito, meno di due settimane dopo, le forze di sicurezza di al-Sisi uccisero 800 sostenitori di Morsi in un solo giorno, il peggior massacro voluto dallo stato nella storia dell’Egitto. Fu l’inizio di una lunga spirale di repressione. Regeni presto partì per l’Inghilterra, dove cominciò a lavorare per Oxford Analytica, un’azienda di analisi e ricerca.

          Da lontano, Regeni seguiva con attenzione il governo di al-Sisi. Scriveva rapporti sul Nord Africa, analizzando tendenze politiche ed economiche, e in capo a un’anno aveva risparmiato abbastanza soldi da poter iniziare il dottorato in studi dello sviluppo a Cambridge. Decise di concentrarsi sui sindacati indipendenti egiziani — la cui serie di scioperi senza precedenti iniziati nel 2006 aveva predisposto il popolo egiziano alla rivolta contro Mubarak. Adesso con la Primavera araba a pezzi, Regeni vedeva i sindacati come fragile speranza per la maltrattata democrazia egiziana. Dopo il 2011, il loro numero era esploso, passando da quattro a migliaia. C’erano sindacati per ogni cosa: macellai, assistenti di teatro, scavatori di pozzi e minatori, addetti alla riscossione delle bollette del gas e comparse nelle telenovelas trash che andavano in onda durante il mese santo del Ramadan. C’era anche un sindacato indipendente dei nani. Guidato dalla sua relatrice, una nota professoressa egiziana di Cambridge che aveva scritto in modo critico su al-Sisi, Regeni scelse di studiare i venditori ambulanti — giovani uomini provenienti da paesini lontani che si ingegnavano per sopravvivere sui marciapiedi del Cairo. Regeni si immerse nel loro mondo sperando di valutare il potenziale del loro sindacato nella guida del cambiamento politico e sociale.

          Però con l’arrivo del 2015 quel tipo di immersione culturale, preferito a lungo da arabisti in erba, non era più facile come prima. Una coltre di sospetti era caduta sul Cairo. La stampa era stata ridotta al silenzio, avvocati e giornalisti venivano regolarmente molestati e gli informatori riempivano i caffè del centro del Cairo. La polizia fece un blitz nell’ufficio in cui Regeni conduceva le sue interviste; folli storie di cospirazioni straniere andavano regolarmente in onda sui canali televisivi del governo.

          Regeni non si fece scoraggiare. Parlava cinque lingue, era insaziabilmente curioso e aveva un fascino poco appariscente che gli aveva attirato un‘ampia cerchia di amici. Dai 12 ai 14 anni, era stato il sindaco dei piccoli della sua cittadina natale, Fiumicello. Teneva molto alla sua capacità di navigare culture diverse e gli piaceva la vita disordinata delle strade del Cairo: i caffè fumosi, l’attività frenetica e infinita, le barche colorate come caramelle che la sera navigavano sul Nilo. Si registrò come ricercatore esterno presso l’American University del Cairo e trovò una stanza a Dokki, un quartiere strozzato dal traffico tra le piramidi ed il Nilo, dove condivideva un appartamento con due giovani professionisti: Juliane Schoki, che un insegnante di tedesco, e Mohamed El Sayad, avvocato in uno dei più antichi studi legali del Cairo. Dokki non era una zona alla moda, però si trovava a due sole fermate di metropolitana dal centro del Cairo, con i suoi labirinti di alberghi economici, bettole e isolati di appartamenti fatiscenti che circondano Piazza Tahrir. In breve, Regeni aveva fatto amicizia con scrittori ed artisti e perfezionava il suo arabo da Abou Tarek, un emporio di quattro piani illuminato con luci al neon che è il posto più famoso del Cairo per il koshary, il piatto tradizionale egiziano di riso, lenticchie e pasta.Passava le ore a intervistare venditori di strada a Heliopolis e nel piccolo mercato dietro la stazione Ramses. Per ottenere la loro fiducia, mangiava dagli stessi carretti sporchi dei suoi interlocutori; il supervisore accademico di Regeni all’American University lo avvertì che si sarebbe procurato un’intossicazione alimentare. A Regeni non interessava: si muoveva attraverso il Cairo con una tranquilla aura di determinazione.

          Per caso venne al Cairo per lavoro Valeriia Vitynska, un’ucraina che Giulio aveva conosciuto a Berlino quattro anni prima. I due riallacciarono i rapporti. “Era più bella di quanto ricordassi,” scrisse in un messaggio ad un amico. Fecero un viaggio sul Mar Rosso e quando lei tornò al suo lavoro a Kiev, continuarono la loro relazione via Skype. “Era molto intenso e bello,” mi ha detto l’amica di Regeni Paz Zàrate, “Lui era gioioso, pieno di speranza per il futuro.”

          Tuttavia Regeni era cosciente dei pericoli del Cairo. “È molto deprimente,” scrisse a Goyder dopo un mese di soggiorno. “Tutti sono super-consapevoli dei giochi in atto.” A dicembre partecipò ad un incontro di attivisti sindacali e scrisse di questa esperienza per una piccola agenzia di stampa italiana. Durante l’incontro, disse ad amici di aver notato una ragazza velata che gli scattava foto con il cellulare. Era stato inquietante. Regeni si lamentò con i suoi amici che alcuni venditori ambulanti lo infastidivano per chiedergli favori, come per esempio cellulari nuovi. E poi il rapporto con il suo contatto principale, un uomo massiccio di circa quarant’anni di nome Mohamed Abdullah, prese una strana piega.

          Abdullah, che prima di salire al vertice del sindacato dei venditori ambulanti aveva lavorato per una decina di anninella distribuzione di un tabloid del Cairo, era la guida di Regeni. Gli offriva consigli e gli presentava uomini da intervistare.

          Una sera ai primi di gennaio dell’anno scorso, i due si incontrarono in un ahua — un caffè in cui spesso gli uomini fumano il narghilè — vicino alla stazione Ramses. Mentre bevevano tè, parlarono di una borsa di studio di 10.000 sterline per “ricercatori attivisti” messa a disposizione da un gruppo non-profit inglese chiamato Antipode Foundation. Regeni si offrì di fare domanda per il contributo. Abdullah aveva altre idee. Potrebbe essere usata per “freedom projects” — cioè attivismo politico contro il governo egiziano? No, non era possibile, rispose risolutamente Regeni. Abdullah cambiò tono. Sua figlia doveva operarsi e sua moglie era malata di cancro. Abdullah “avrebbe fatto qualunque cosa” per soldi. Regeni, esasperato, gesticolava in modo teatrale mentre si sforzava in arabo. “Mish mukin,” disse. Non è possibile. “Mish professional.”

          Due settimane dopo, nel quinto anniversario della rivolta del 2011, il Cairo era quasi totalmente chiuso per motivi di sicurezza. Piazza Tahrir era deserta, eccetto per un centinaio di sostenitori del governo portati lì a sventolare striscioni di al-Sisi e scattarsi selfie con la polizia antisommossa. Per settimane i servizi di sicurezza avevano messo dentro potenziali manifestanti, facendo blitz negli appartamenti del centro e nei caffè. Come quasi tutti gli abitanti del Cairo, Regeni passò la giornata a casa, lavorando e ascoltando musica. Al calar della notte, decise che era sicuro uscire dall’appartamento: un amico italiano lo aveva invitato a una festa di compleanno per un egiziano di sinistra. Avevano concordato di incontrarsi in un caffè vicino a Piazza Tahrir.

          Prima di uscire, Regeni ascoltò la canzone dei Coldplay “A Rush of Blood to the Head” — e mandò un messaggio a Vitynska. “Sto uscendo,” scrisse alle 19:41. La stazione della metropolitana distava solo pochi passi. Ma alle 20:18 Regeni ancora non era arrivato. Il suo amico italiano cominciò a tentare di raggiungerlo — all’inizio con dei messaggi sul cellulare, poi con chiamate frenetiche.

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            Una delle promesse più intossicanti della Primavera araba è stata la speranza che il detestato apparato di sicurezza sarebbe stato smantellato. A marzo 2011, nei primi emozionanti mesi della rivolta, gli egiziani presero d’assalto il quartier generale della Sicurezza di Stato, la principale arma di repressione dell’era Mubarak. Ne emersero liste di informatori, copie di foto di sorveglianza e trascrizioni di intercettazioni telefoniche. Alcuni trovarono foto di se stessi. Ci furono richieste di un drastico risanamento dei servizi di sicurezza. Ma quando il paese sprofondò nel caos post-rivoluzionario, i discorsi sulla riforma si spensero. Dopo l’ascesa al potere di al-Sisi nel 2013, divenne chiaro quanto poco le cose fossero cambiate.

            La Sicurezza dello stato cambiò nome in agenzia di sicurezza nazionale ma rimase sotto il controllo del potente Ministero degli Interni, che si stimava impiegasse più di un milione e mezzo di poliziotti, agenti di sicurezza e informatori. Gli agenti che erano stati licenziati furono reintegrati e le camere di tortura vennero riaperte. I capi dell’opposizione, temendo l’arresto, fuggirono dal paese. Gli osservatori dei diritti umani cominciarono a contare il numero di persone “sparite” — critici che scomparivano mentre si trovavano in custodia statale senza aver subito arresto o processo — finché anche gli osservatori cominciarono a loro volta a svanire.

            Oggi, l’Egitto è probabilmente un posto più duro di quanto non fosse mai stato sotto Mubarak. Dopo aver preso il potere, al-Sisi ha vinto le elezioni presidenziali del 2014 con il 97% dei voti. Il Parlamento è pieno dei suoi sostenitori e le carceri sono piene dei suoi oppositori — 40.000 persone, secondo la maggior parte delle fonti, principalmente i Fratelli Musulmani, l’organizzazione islamista fondata nel 1928, ma anche avvocati, giornalisti, e volontari di agenzie umanitarie. Al-Sisi giustifica queste misure con il pericolo che viene dagli estremisti. Fin dal 2014 militanti dello Stato Islamico combattono i soldati egiziani nel Sinai; e quest’anno hanno mandato kamikaze nelle chiese copte, uccidendo dozzine di persone. Molti egiziani temono che senza un’autorità forte e stabile il loro paese di 93 milioni di abitanti potrebbe diventare la prossima Siria, Libia o Iraq. In maggioranza, le élite del Paese, paventando il caos che era seguito alla Primavera araba, stanno risolutamente dalla parte di al-Sisi; molti intellettuali, costernati dalla breve vita dell’esperienza democratica, ammettono di essere a corto di idee.
            Indipendente da qualsiasi partito politico, al-Sisi deriva la sua autorità dai pilastri dello stato — generali, giudici e capi della sicurezza — che sono sempre più potenti. Il principio guida di questo stato di polizia nascente è prevenire il ripetersi degli eventi del 2011, come mi ha detto l’ambasciatore di un paese occidentale — che ha chiesto di rimanere anonimo perché non autorizzato a parlare di questo argomento — mentre sedevamo nel suo giardino l’inverno scorso. Nel suo ultimo decennio al potere, Mubarak aveva fatto qualche concessione. I Fratelli Musulmani avevano vinto un quinto dei seggi in Parlamento; la stampa godeva di una libertà limitata; alcuni scioperi erano stati permessi, con riluttanza. Però niente di tutto ciò salvò Mubarak — in realtà, secondo i funzionari di al-Sisi, proprio questo allentamento ha accelerato la sua fine. La lezione è stata chiara: “Dare un centimetro è uno sbaglio;” mi ha spiegato l’ambasciatore, elencando le caratteristiche del regime di al-Sisi: “la segretezza; la paranoia; l’idea che il potere si afferma con l’apparire forte, senza mostrare debolezze o costruire ponti.”

            La decifrazione dei meccanismi interni delle tre principali agenzie di sicurezza è diventata una fissazione per gli osservatori dell’Egitto. “È tutto molto opaco, come una scatola nera,” mi ha detto Michael Wahid Hanna della Century Foundation, un istituto politico di New York. “Però ci sono degli indizi.”

            Le agenzie di sicurezza sono fedeli ad al-Sisi, mi ha spiegato Hanna, però manovrano in continuazione per guadagnare migliori posizioni. L‘Agenzia di sicurezza nazionale, che si pensa abbia 100.000 impiegati e almeno altrettanti informatori, rimane la più visibile. La sua rivale emergente sono i servizi segreti militari, che tradizionalmente evitano la politica ma che si sono ingranditi sotto al-Sisi, che ne è stato a capo dal 2010 al 2012. Il Servizio di Intelligence Generale è l’equivalente egiziano della CIA. Immensamente potente sotto Mubarak, è adesso considerata un po’ sminuita.

            Nel loro complesso, queste agenzie esercitano un’influenza fuori misura. Possiedono stazioni televisive, controllano blocchi di parlamentari e si muovono nel mondo degli affari; i loro agenti sorvegliano sia le strade sia Internet. Sono loro a determinare la linea di separazione tra ciò che è lecito nella società egiziana e ciò che non lo è. Questo rende l’Egitto un luogo pericoloso per i critici: una mossa sbagliata, o perfino una battuta considerata fuori posto (alcuni egiziani sono finiti in prigione per un post su Facebook) può portare all’incarcerazione o al divieto di lasciare il paese. Amnesty International stima che il numero di persone scomparse sia di circa 1.700 e sostiene che le esecuzioni extragiudiziali siano un fatto comune.

            Quando Regeni arrivò nel 2015 si pensava che gli stranieri fossero soggetti a regole diverse. È vero che alcuni avevano avuto problemi. All’inizio dell’anno il giornalista australiano Peter Greste di Al Jazeera era stato finalmente rilasciato dopo tredici mesi in carcere, accusato di aver compromesso la sicurezza nazionale; uno studente francese era stato espulso dal paese per aver intervistato attivisti democratici. I relatori accademici di Regeni lo avevano avvisato di evitare contatti con membri dei Fratelli Musulmani. “La situazione qua non è facile,” Regeni aveva scritto ad un amico un mese dopo l’arrivo. Ma, come mi disse poi il suo supervisore, tutto sommato Regeni era convinto che il suo passaporto lo avrebbe protetto. La sua vera paura era essere obbligato a tornare a Cambridge prima di riuscire a finire la sua ricerca.

            Una settimana dopo la sparizione di Regeni l’ambasciatore italiano al Cairo, Maurizio Massari fu preso da un presentimento. Con la sua chioma di capelli grigi e il suo fascino raffinato, Massari era una figura popolare nel giro diplomatico del Cairo. Gli piaceva ospitare eventi con accademici e politici egiziani; durante i fine settimana guardava partite di calcio con la sua controparte americana, l’ambasciatore R. Stephen Beecroft. Ora, camminava avanti e indietro per i lunghi corridoi di marmo dell’ambasciata italiana che danno sul Nilo.

            La notizia della scomparsa di Regeni si era diffusa in tutto il Cairo. I suoi amici avevano lanciato una campagna online con l’hashtag #whereisgiulio (#dov’ègiulio). I genitori di Regeni, che erano arrivati dall’Italia, dormivano nel suo appartamento a Dokki. Circolava la voce che Regeni fosse stato sequestrato da radicali islamisti — una possibilità terrificante perché sei mesi prima un ingegnere croato rapito alla periferia del Cairo era stato decapitato da militanti dello Stato Islamico. L’ansia dell’ambasciatore era amplificata dalla risposta degli ufficiali egiziani. La sezione di intelligence dell’ambasciata italiana non aveva piste, così Massari chiese di vedere il ministro degli Esteri, il ministro della Produzione Militare e il consigliere egiziano per la Sicurezza Nazionale, Fayza Abul Naga. Tutti affermarono di non sapere nulla. L’incontro più inquietante fu quello con il ministero dell’Interno, Magdi Abdel-Ghaffar, che impiegò sei giorni per concordare un incontro — per poi rimanere impassibile mentre il diplomatico italiano implorava il suo aiuto. Massari se ne andò perplesso: Abdel-Ghaffar, veterano di quarant’anni anni nei servizi di sicurezza, aveva un esercito di informatori. Come poteva essere all’oscuro?

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              La polizia avviò una ricerca per persona scomparsa, però sembrava seguire strane piste di indagine. Quando gli investigatori intervistarono Amr, un professore universitario di sinistra amico di Regeni, che ha chiesto che il suo cognome non fosse usato per questo articolo per paura di ripercussioni, gli venne chiesto ripetutamente se Regeni fosse gay. “Dichiarai che Giulio aveva una fidanzata,” Amr mi disse quando ci incontrammo per un caffè vicino alla sua casa nel sobborgo di Maadi. “Poi un altro poliziotto fa: ‘Sei sicuro che è etero? Forse è uno di quei bisessuali.’”

              “Io gli ho detto ‘Trovatelo e basta.’”

              La crisi si intensificò con l’arrivo di un’importante delegazione commerciale italiana. Fin dal 1914 l’Italia ha mantenuto legami diplomatici con l’Egitto, restando vicina al paese anche quando altri ne prendevano le distanze. L’Italia èil maggior partner commerciale europeo dell’Egitto — quasi sei miliardi di dollari nel 2015 — e Roma è fiera dei legami con il Cairo. Nel 2014, l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi fu il primo leader occidentale ad accogliere al-Sisi nella propria capitale, e l’Italia ha continuatoa vendere all’Egitto armi e sistemi di sorveglianza nonostante l’aumento delle prove di abusi dei diritti umani.

              Il giorno dopo l’incontro di Massari con il ministro dell’Interno, il ministro italiano dello Sviluppo Economico Federica Guidi arrivò al Cairo con trenta imprenditori italiani, sperando di firmare accordi nei settori dell’edilizia, dell’energia e delle armi. Adesso era Regeni il primo punto dell’agenda. Il gruppo andò subito ad Al-Ittihadiya, il principale palazzo presidenziale, lì dove mesi prima Regeni aveva aiutato i venditori ambulanti durante il blitz della polizia fuori dai cancelli sul retro. Massari e Guidi furono ammessi ad un incontro privato con al-Sisi, che ascoltò seriamentementre gli italiani delineavano le loro preoccupazioni. Ma anche al-Sisi si limitò a offrire solidarietà.

              Quella sera, Massari dette un ricevimento all’ambasciata per la delegazione commerciale e per uomini d’affari egiziani. Circa duecento persone si mescolarono nella sala dei ricevimenti, sorseggiando vino in attesa della cena. Tra di loro c’era il vice ministro degli Esteri, Hossam Zaki, che con uno sguardo cupo si spinse attraverso la folla fino a Massari. “Non lo sai?” disse Zaki.

              “Sapere che cosa?” Massari rispose.

              “Hanno trovato un corpo.”

              Quella mattina presto, l’autista di un pullman che viaggiava sulla strada del deserto Cairo-Alessandria nella parte ovest del Cairo, notò qualcosa sul ciglio della strada. Quando scese scoprì un corpo, nudo dalla vita in giù e cosparso di sangue. Era Regeni.

              Massari si precipitò all’albergo Four Seasons, dove soggiornava Guidi. Assieme telefonarono a Renzi e al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Poi cancellarono il ricevimento, mandando a casa gli ospiti confusi e senza una spiegazione. Poi Massari e il ministro andarono all’appartamento di Regeni a Dokki, dove erano i suoi genitori. Quando l’ambasciatore abbracciò la madre di Regeni, Paola Deffendi, le peggiori paure della famigliavennero confermate. “È tutto finito” avrebbe detto alla stampa più tardi. “La felicita della nostra famiglia è stata così breve.”

              Massari arrivò all’obitorio Zeinhom al centro del Cairo dopo mezzanotte. Lo accompagnava una piccola squadra dall’ambasciata, con un poliziotto. Inizialmente, i funzionari dell’obitorio gli rifiutarono l’ingresso. “Aprite la porta!” urlò Massari, visibilmente agitato. Massari fu finalmente portato dentro una sala refrigerata dove il corpo di Regeni giaceva steso su un tavolo di metallo.

              La bocca di Regeni era spalancata e i suoi capelli erano impastati di sangue. Mancava uno dei denti anteriori e molti altri erano scheggiati o rotti, come se fossero stati colpiti con un oggetto contundente. La sua pelle era butterata da bruciature di sigaretta, e c’erano ferite profonde sulla schiena. Il lobo dell’orecchio destro era mozzato e le ossa di polsi, spalle e piedi erano frantumate. Un’ondata di nausea colpì Massari. Regeni sembrava essere stato torturato a lungo. Giorni dopo, l’autopsia italiana avrebbe confermato l’entità delle sue lesioni: Regeni era stato picchiato, bruciato, pugnalato, e probabilmente frustato sulle piante dei piedi per un periodo di quattro giorni. Era morto quando gli avevano spezzato il collo.
              L’ufficio di Ahmed Nagy, il procuratore inizialmente incaricato dell’indagine sull’omicidio di Regeni, si trova al settimo piano della fatiscente Procura di Giza, a qualche chilometro da Piazza Tahrir. Ogni giorno centinaia di persone ne percorrono gli stretti corridoi — avvocati, prigionieri ammanettati e le loro famiglie. Quando andai a trovarlo qualche settimana dopo la morte di Regeni, Nagy, un magro fumatore incallito, era appollaiato dietro una scrivania in stile Luigi XIV coperta di carte e di tazze di caffè bevute a metà.

              Nelle prime ore dell’indagine, Nagy parlò con una franchezza sorprendente. Disse ai giornalisti che Regeni aveva sofferto una morte lenta, e lasciò aperta la possibilità che la polizia potesse essere coinvolta. “Non lo escludiamo.” Ma poco dopo l’investigatore responsabile del caso suggerì che Regeni potesse essere morto in un incidente d’auto. Teorie sconvolgenti apparvero sui giornali e in televisione: Regeni era omosessuale ed era stato ucciso da un amante geloso. Era un tossicodipendente o una pedina dei Fratelli Musulmani. Era una spia. Parecchi articoli sottolinearono il suo lavoro presso Oxford Analytica, che era stata fondata da un ex-funzionario dell’amministrazione Nixon, come segno probabile di un suo impiego da parte della CIA o del MI6 britannico. In una conferenza stampa, il ministro degli Interni, Abdel-Ghaffar, rigettò l’ipotesi che i servizi di sicurezza avessero detenuto Regeni. “Certo che no!” disse. “Questa è la mia ultima parola in materia: Non è successo.”

              L’ufficio di Nagy era fresco e buio, le persiane ben chiuse mentre l’aria scaturiva da un rumoroso condizionatore. Con i capelli tirati indietro con il gel e il sorriso intermittente, Nagy esibiva un’aria di confortante sicurezza. Ma l’audacia che aveva dimostrato una volta sul caso Regeni era svanita. Rispose gentilmente ma evasivamente alle mie domande. “Gli omicidi possono finire irrisolti,” Nagy concluse dopo trenta inutili minuti. “Dovremo solo aspettare. Inshallah, qualcosa ne verrà fuori.”

              I funzionari egiziani hanno una lunga storia di gestione delle crisi proprio attraverso prima la negazione, poi l’offuscamento, poi il temporeggiare nella speranza che il problema scompaia da solo. Nel settembre 2015, il mese dell’arrivo di Regeni, un elicottero d’attacco egiziano aveva ucciso quattro turisti messicani e quattro egiziani che facevano un picnic nel deserto occidentale dell’Egitto scambiandoli per terroristi. Invece di presentare le loro scuse, prima le autorità tentarono di scaricare la colpa sulle guide turistiche, poi promisero un’indagine che non è mai arrivata ad alcuna conclusione. Il governo messicano era furioso. Un mese dopo, l’Egitto inizialmente rifiutò di ammettere che una bomba piazzata dallo Stato Islamico aveva fatto precipitare un jet russo sul Sinai, uccidendo 224 persone, nonostante che tanto la Russia quanto lo Stato Islamico l’avessero confermato.


              Ma se i funzionari egiziani avevano creduto di poter bluffare per tirarsi fuori dalla crisi Regeni, si erano sbagliati. Più di 3.000 persone assisterono al suo funerale nel suo paese d’origine, Fiumicello; in tutta l’Italia, il lutto si trasformò in indignazione quando emersero i dettagli delle torture atroci che aveva subito. Sulla stampa, Regeni fu spesso raffigurato con una foto in cui sorrideva con un gatto in braccio. Striscioni gialli con lo slogan “Verità per Giulio Regeni” comparvero nelle città grandi e piccole. “Ci fermeremo solo quando avremo trovato la verità,” disse Renzi ai giornalisti. “La verità vera, non una verità di comodo.”

              La rabbia di Renzi si basava su qualcosa di più di una sensazione. Nelle settimane successive alla morte di Regeni, gli Stati Uniti ricevettero dall’Egitto informazioni di intelligence esplosive: la prova che funzionari di sicurezza egiziani avevano rapito, torturato e ucciso Regeni. “Avevamo prove incontrovertibili della responsabilità ufficiale egiziana,” mi disse un funzionario dell’amministrazione Obama — uno dei tre ex funzionari che hanno confermato le prove. “Non c’era dubbio.” Su raccomandazione del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca, gli Stati Uniti passarono questa loro conclusione al governo Renzi. Ma per evitare di identificare la fonte, gli americani non condivisero i dati originali, né rivelarono quale agenzia di sicurezza pensavano fosse responsabile della morte di Regeni. “Non era chiaro chi aveva dato l’ordine di rapirlo e, presumibilmente, ucciderlo,” mi disse un’altro ex funzionario. Quello che gli americani sapevano per certo, e lo dissero agli italiani, fu che la leadership egiziana era completamente a conoscenza delle circostanze della morte di Regeni. “Non avevamo alcun dubbio che questo fosse noto ai livelli più alti,” disse l’altro funzionario. “Non so se avevano responsabilità. Ma sapevano. Sapevano.”

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                Settimane dopo, all’inizio del 2016, l’allora Segretario di Stato John F. Kerry affrontò il ministro egiziano degli Esteri, Sameh Shoukry, in un incontro a Washington. Fu una conversazione “decisamente accesa”, mi disse un funzionario dell’amministrazione Obama, sebbene lo staff di Kerry non avesse potuto capire se Shoukry stesse facendo muro di gomma o se semplicemente non conoscesse la verità.” Questo approccio diretto “suscitò qualche perplessità” all’interno dell’amministrazione, mi disse un altro funzionario, perché Kerry aveva la reputazione di trattare con i guanti di velluto l’Egitto, un fulcro della politica estera americana dall’epoca del trattato di pace Egitto-Israele del 1979.

                Una squadra di sette investigatori italiani era ormai arrivata al Cairo per assistere l’indagine egiziana. I sette furono ostacolati in ogni modo. I testimoni sembravano essere stati imboccati. I filmati delle telecamere di sorveglianza della stazione della metropolitana vicina all’appartamento di Regeni erano stati cancellati; le richieste di avere i metadati di milioni di telefonate vennero respinte perché ciò avrebbe compromesso i diritti costituzionali dei cittadini egiziani. Alcuni coraggiosi testimoni egiziani parlarono con gli investigatori nel loro ufficio temporaneo nel seminterrato dell’ambasciata italiana. Ma persino lì gli italiani si sentivano a disagio.

                Dopo la morte di Regeni, Massari, l’ambasciatore, iniziò a preoccuparsi per la sicurezza dell’ambasciata; poco tempo dopo smise di usare email e telefoni per trattare argomenti sensibili, facendo invece ricorso, per mandare messaggi a Roma, ad una vecchia macchina per cifratura su carta. I funzionari italiani temevano che gli egiziani impiegati dall’ambasciata italiana passassero informazioni alle forze di sicurezza egiziane; notarono anche che le luci di un appartamento di fronte all’ambasciata erano sempre spente — un buon posto per mettere un microfono direzionale. Massari, ancora traumatizzato dal ricordo delle ferite di Regeni, era diventato un eremita ed evitava gli incontri con altri ambasciatori. Il suo rapporto con il governo egiziano si stava deteriorando; i funzionari egiziani, furiosi per un’intervista che Massari aveva dato ad una stazione televisiva italiana, erano sicuri che egli stesse cercando di incolparli dell’omicidio. “Avevamo dedotto che lui si era già schierato,” mi disse poi Hossam Zaki, vice ministro degli Esteri. “Era diventato abbastanza irrilevante. Inutile.” Quando Massari usciva, la gente notò che sembrava esausto. Gli amici dicevano che aveva difficoltà a dormire.Le pressioni internazionali sugli egiziani crescevano. I giornali italiani avevano inviato al Cairo i loro giornalisti più determinati. Apparve un sito web dal nome RegeniLeaks, per sollecitare le soffiate dagli informatori egiziani. La madre di Regeni cominciò una sua campagna per ottenere che venisse rivelata la verità, ed affermò in una conferenza stampa che aveva potuto riconoscere il corpo martoriato di Giulio soltanto dalla punta del naso. Attori, personaggi televisivi, e calciatori italiani vennero in suo aiuto. Degli egiziani dissero alla signora Deffendi che suo figlio “era morto come un egiziano”, un attestato di stima nell’Egitto di al-Sisi. Il Parlamento Europeo passò una severa risoluzione che condannava le circostanze sospette in cui era morto Regeni; a Londra, degli attivisti presentarono al Parlamento una petizione con più di 10.000 firme, chiedendo al governo britannico di assicurarsi che si effettuasse “un’indagine credibile”. Anche l’FBI stava aiutando l’indagine italiana; quando un’amica di Regeni atterrò negli Stati Uniti per una vacanza, gli agenti la fermarono per farle alcune domande.

                Stavolta, l’ostruzionismo non avrebbe funzionato. “Siamo nella [espletivo] fino al collo,” osservò un importante presentatore televisivo, Amr Adeeb, durante il suo programma.

                “Lei parla latino?” mi chiese Luigi Manconi, un senatore italiano che sostiene la causa della famiglia Regeni, quando sono andato a trovarlo a Roma a gennaio. “C’è una frase in latino — arcana imperii. Significa i segreti del potere.”

                Fece una pausa e mi lanciò uno sguardo ad effetto.

                “Ciò è quanto stiamo vedendo in Egitto: il lato oscuro di quelle istituzioni; i segreti al loro cuore.”

                Il senatore si riferiva alle agenzie di sicurezza egiziane, ma quello che non diceva era che l’indagine Regeni stava portando alla luce dolorose incrinature all’interno dello stato italiano. C’erano altre priorità. I servizi di intelligence italiani avevano bisogno dell’aiuto dell’Egitto per contrastare lo Stato Islamico, gestire il conflitto in Libia e monitorare il flusso di migranti attraverso il Mediterraneo. La società energetica controllata dallo stato italiano, l’Eni, Ente Nazionale Idrocarburi, aveva i propri interessi. Settimane prima che Regeni arrivasse al Cairo, l’Eni aveva annunciato una grande scoperta: il giacimento di gas naturale Zohr, a 193 chilometri dalla costa egiziana settentrionale, che conteneva circa 850 miliardi metri cubi di gas — l’equivalente di 5.5 miliardi di barili di petrolio.

                L’Italia è uno dei paesi più vulnerabili in campo energetico, cosa che rende l’Eni più di un gigante da $58 miliardi, con operazioni in 73 paesi; lo rende anche una parte integrante della politica estera italiana. Nel 2014, Renzi lo riconobbe, definendo l’Eni “un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, e della nostra politica di intelligence.” In molti paesi, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi — l’altissimo petroliere milanese che ha recentemente guidato gli sforzi di esplorazione in Africa — conosce i leader locali meglio dei ministri italiani.

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                  Mentre montava la pressione per risolvere l’omicidio di Regeni, Descalzi, un ospite regolare al Cairo, assicurava ad Amnesty International che le autorità egiziane “stavano facendo il massimo sforzo” per trovare gli assassini di Regeni. Aveva discusso il caso almeno tre volte con al-Sisi. Secondo un funzionario del ministero degli Affari Esteri italiano, i diplomatici cominciarono a credere che l’Eni si fosse unita ai servizi di intelligence italiani nel tentativo di arrivare velocemente ad una soluzione del caso. L’Eni ha storicamente assunto spie italiane in pensione nel la sua divisione di sicurezza interna, dice Andrea Greco, coautore di “Lo Stato Parallelo,” un libro del 2016 sull’Eni. “Hanno una forte collaborazione. Sono sicuro che possono aver collaborato sul caso Regeni, anche se non è sicuro che i loro interessi siano stati allineati.” Una portavoce dell’Eni dice che l’azienda è stata “sconvolta” dalla morte di Regeni e che pur non avendo alcuna responsabilità nelle indagini, ha sempre continuato “a seguire la questione molto da vicino” nelle sue interazioni con il governo egiziano.

                  La presunta collaborazione tra l’Eni e i servizi di intelligence italiani divenne una fonte di tensione all’interno del governo italiano. Funzionari del ministero degli Esteri e dell’intelligence cominciarono a diffidare gli uni degli altri e, a volte, a non condividere informazioni. “Eravamo in guerra, e non solo con gli egiziani,” mi ha raccontato un funzionario. I diplomatici sospettavano che alcune spie italiane, in un tentativo di chiudere il caso, avessero organizzato l’intervista di al-Sisi al giornale italiano La Repubblica sei settimane dopo la morte di Regeni. (Il direttore de La Repubblica afferma che la richiesta per l’intervista sia arrivata dal giornale stesso.) Nell’intervista, al-Sisi espresse solidarietà per i genitori di Regeni, definendo la sua morte “terrificante e inaccettabile,” e giurò di trovare i colpevoli. “Arriveremo alla verità,” disse.

                  Il 24 Marzo, otto giorni dopo la pubblicazione dell’intervista, la polizia del Cairo aprì il fuoco contro un minivan che attraversava un sobborgo benestante con a bordo cinque uomini, alcuni con fedine penali sporche o storie di tossicodipendenza. Tutti e cinque vennero uccisi, e in una dichiarazione della polizia vennero definiti una banda di rapitori che aveva come bersaglio cittadini stranieri. In un successivo blitz in un appartamento collegato agli uomini uccisi, la polizia disse di aver scoperto il passaporto, la carta di credito e la tessera universitaria di Regeni. Poco dopo, i media di stato egiziani riportarono che gli assassini di Regeni erano stati identificati. Gli investigatori italiani, che si trovavano all’aeroporto per tornare in Italia per la Pasqua, furono richiamati, e il ministero dell’Interno egiziano li ringraziò per la loro collaborazione.

                  In Italia, la notizia della sparatoria venne accolta con scetticismo — su Twitter cominciò a circolare l’hashtag #noncicredo. La versione egiziana si smontò velocemente. Dei testimoni dissero ad alcuni giornalisti (me incluso) che gli uomini erano stati giustiziati a sangue freddo. Uno era stato colpito mentre correva e il suo cadavere posizionato più tardi dentro il minivan. “Non hanno avuto nessuna possibilità,” mi disse un uomo scuotendo la testa. Il loro collegamento con Regeni crollò: gli investigatori italiani usarono i tabulati telefonici per mostrare che il presunto capo della banda, Tarek Abdel Fattah, era a più di novanta kilometri a nord del Cairo il giorno del presunto rapimento di Regeni.
                  L’autunno scorso, il procuratore capo egiziano ha detto alla sua controparte italiana che due poliziotti erano stati accusati di omicidio in relazione alla morte dei cinque. Peròrimaneva una domanda imbarazzante: se gli uomini morti non avevano ucciso Regeni, come era finito il suo passaporto nel loro appartamento?

                  Gli Italiani avevano pochi dubbi che l’intero episodio fosse stato un rozzo tentativo di insabbiamento, eseguito in modo così inetto che gli egiziani si erano incriminati da soli. Eppure funzionò. Gli investigatori italiani lasciarono il Cairo, e l’indagine si bloccò. Massari fu sostituito da un nuovo ambasciatore a cui venne ordinato di restare a Roma. In Egitto, “Regeni”, diventò una parola che poteva essere solo mormorata. “Tutti quelli che tengono a Giulio hanno paura,” mi disse Hoda Kamel, una sindacalista che aiutava Regeni con le sue ricerche. “Sembra che tutto lo stato, con tutto il suo potere, stia tentando di far morire l’intera storia.”

                  Dopo mesi di rapporti diplomatici tesi, il muro della negazione egiziana si è crepato — o così è sembrato. Durante un viaggio a Roma nel settembre scorso, il procuratore capo egiziano, Nabil Sadek, ha ammesso pubblicamente che l’agenzia di sicurezza nazionale egiziana, sospettando Regeni di spionaggio, lo teneva sotto sorveglianza. In una serie di incontri avvenuti nei mesi successivi, ha fornito agli italiani documenti — tabulati telefonici, testimonianze scritte e un video — che mostrano come Regeni fosse stato tradito da parecchie persone a lui vicine.

                  Muhammad Abdullah, il contatto di Regeni nel sindacato dei venditori ambulanti, era un informatore dell’agenzia di sicurezza nazionale. Usando una telecamera nascosta, aveva registrato la sua conversazione con Regeni sulla borsa di studio da £10.000 sterline (gli egiziani hanno consegnato il video). In una dichiarazione, ha descritto i suoi incontri con il suo contatto, il Colonnello Sharif Magdi Ibrahim Abdlaal, che, afferma, gli aveva promesso una ricompensa alla chiusura del caso Regeni.

                  L’identità della seconda persona era forse più sorprendente. I funzionari italiani sono arrivati alla conclusione che nel mese precedente la sparizione di Regeni, il suo coinquilino, l’avvocato Mohamed El Sayed, permise a funzionari dell‘agenzia di sicurezza nazionale di perquisire il loro appartamento.

                  Nelle settimane successive, come risulta dai tabulati telefonici, Sayad ha avuto contatti con due funzionari dell‘agenzia di sicurezza nazionale.

                  Sayad non ha risposto alle richieste di commento, ma ho avuto un lunga corrispondenza su Facebook con l’altra coinquilina di Regeni, Juliane Schoki. La sua versione riflette il clima di diffidenza nel Cairo di al-Sisi. Secondo Schoki, già dopo pochi giorni dal suo trasloco nel loro appartamento Sayad esprimeva sospetti su Regeni. Ricorda che diceva “Penso che Giulio sia una spia.”

                  Dopo la scomparsa di Regeni, lei cominciò a condividere quell’impressione. I due supponevano che Regeni lavorasse per il Mossad. (Mi disse che una volta Regeni le aveva raccontato di aver avuto una fidanzata Israeliana e di aver visitato Israele.) Schoki, che ha poi lasciato l’Egitto, aveva raccontato questa sua idea a funzionari di intelligence egiziani. Ricordava che “erano sorpresi perché avevano la stessa idea”.

                  Dopo la morte di Regeni, seduti con Sayad a guardare un thriller in televisione, avrebbe esclamavano, “E’ esattamente così!” — una cosa che ammette, ripensandoci, “sembra un po’ ridicola.” “Ma un anno fa sembrava avere perfettamente senso.”

                  Gli italiani hanno usato i tabulati telefonici egiziani per stabilire altri collegamenti e hanno scoperto che il poliziotto che sosteneva di aver trovato il passaporto di Regeni era stato in contatto con membri della squadra dell’agenzia di sicurezza nazionale che pedinava Regeni. All’improvviso, i genitori di Regeni hanno osato sperare che la verità potesse venire a galla. “Il male continua a svelarsi piano piano come un gomitolo di lana,” hanno scritto i suoi genitori in una lettera pubblicata su La Repubblica nel primo anniversario della sua scomparsa.

                  Tuttavia, nonostante gli egiziani abbiano ammesso di aver sorvegliato Regeni, hanno sempre insistito di non averlo né rapito né ucciso. E anche se ciò potesse essere provato, rimane il mistero principale: Perché venne “ucciso come un egiziano”? Una teoria semplice si rifà all’opera di un agente deviato. Nel ministero dell’interno, che controlla l’agenzia di sicurezza nazionale, anche agenti di basso livello godono di considerevole autonomia, e tuttavia raramente sono tenuti a rispondere dei propri atti, afferma Yezid Sayigh, senior associate della Carnegie Middle East Center di Beirut. Secondo lui, “possono accadere cose che al-Sisi non approva”. Però c’era molto altro che non aveva senso. Quale funzionario egiziano ha creduto che torturare un straniero fosse una buona idea? Perché scaricare il suo corpo sul ciglio di un’autostrada trafficata, invece di seppellirlo nel deserto dove poteva non essere mai più trovato? E perché far trovare il corpo al momento dell’arrivo al Cairo di una delegazione italiana di così alto livello?

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                    Una lettera anonima inviata all’ambasciata italiana a Berna, in Svizzera, l’anno scorso e poi pubblicata su un giornale italiano, ha offerto un’altra spiegazione: Regeni si è trovato nel mezzo ad una guerra per il territorio condotta nell’ombra tra agenzia di sicurezza nazionale e servizi segreti militari, nella quale un gruppo ha usato la sua morte per mettere in imbarazzo l’altro gruppo. I dettagli suggerivano che l’autore del resoconto avesse una conoscenza intima dell’apparato di sicurezza egiziano, però appariva improbabile che una sola persona potesse sapere così tanto. Tuttavia funzionari americani di alto livello mi hanno detto che la lettera era coerente con più approfonditi rapporti di intelligence sulle feroci lotte interne per il potere tra agenzie di sicurezza rivali. Uno di loro ha affermato che “usano i casi come leva per mettersi in imbarazzo a vicenda.”

                    La possibilità più allarmante è che la morte di Regeni sia stata un messaggio intenzionale — un segnale che, sotto al-Sisi, anche un occidentale può essere soggetto agli eccessi più brutali. A Roma, un funzionario mi ha detto che quando il corpo di Regeni fu scoperto, era appoggiato ad un muro. “Volevano che lo trovassero?” Il funzionario dell’amministrazione Obama ha detto di credere che qualcuno negli alti ranghi del governo egiziano possa aver ordinato la morte di Regeni “per mandare un messaggio agli altri stranieri e ai governi stranieri di smettere di giocare con la sicurezza dell’Egitto.”

                    Nessun funzionario egiziano di grado elevato ha accettato di parlare con me per quest’articolo. Ma Hossam Zaki, l’ex vice ministro degli Esteri che adesso è l’assistente segretario generale della Lega Araba, mi ha detto che i funzionari egiziani credono che l’omicidio sia stato l’opera di una non identificata “terza parte” che cercava di sabotare le relazioni tra Egitto e Italia. “Gli egiziani non trattano male gli stranieri, punto.”

                    Nonostante tutto ciò, la morte di Regeni ha gettato un’ombra sulla sempre più ridotta comunità di espatriati del Cairo. Mi ha detto un diplomatico europeo: “poche cose mi hanno sconvolto così profondamente.” Prima che parlassimo, il diplomatico mi aveva chiesto di depositare il mio cellulare in una scatola blocca-segnale — così che la nostra conversazione non potesse essere monitorata. La morte di Regeni, continuava il diplomatico, ha segnalato la direzione generale dell’Egitto: Regeni è stato vittima della paranoia verso gli stranieri che ora scorre attraverso la società egiziana; dopo la rivoluzione, anche piccole interazioni potevano essere pericolose. Il diplomatico ha ricordato un pranzo nel quartiere islamico del Cairo: un uomo agitato si lamentava con un altro ospite che aveva scattato una foto del pasto — fagiolini, pane e tamiyya, il falafel egiziano. Cominciò ad urlare: “Sei un straniero. Userai questa foto per mostrare che mangiamo solo fagioli e pane!”

                    A Fiumicello, dove Regeni è cresciuto e dove i suoi genitori abitano tuttora, uno striscione che dice “Verità per Giulio Regeni” è appeso nella chiesa principale, ma pochi credono che la verità verrà mai fuori. La famiglia di Regeni ha serrato i ranghi — ha scelto come difensore un pugnace avvocato — e ha cominciato una propria indagine sull’omicidio. (I suoi genitori non hanno accettato di essere intervistati per quest’articolo ma hanno risposto ad alcune domande via email). Al quartier generale di Roma del Raggruppamento Operativo Speciale dell’Arma dei Carabinieri, che è specializzato in operazioni antiterrorismo e anti-mafia, il Gen. Giuseppe Governale insiste che c’è ancora speranza di risolvere il crimine. “La mentalità araba è di procrastinare finché tutti dimenticano,” mi ha detto. “Ma noi non ci fermeremo finché troveremo una risposta. Lo dobbiamo a sua madre.”

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                      Gli italiani hanno ciò che Carlo Bonini — un giornalista de LaRepubblica che ha scritto molto sul caso Regeni — chiama “l’ultima pallottola.” Secondo la legge italiana, si potrebbero iscrivere nel registro degli indagati presso la procura di Roma i pochi funzionari della sicurezza egiziana che si ritengono responsabili. Ma anche questa potrebbe essere una vittoria di Pirro: l’Egitto non estraderebbe mai nessuno per essere processato. E sembrano esserci poche possibilità che al-Sisi venga spinto a dire la verità. A Roma il mese scorso, alcuni funzionari hanno ammesso che l’indagine è poco più che un kabuki geopolitico; la politica, e non il lavoro della polizia, potrebbe determinare la sua conclusione. Nei 18 mesi dalla morte di Regeni, al-Sisi ha cenato con la Cancelliera tedesca, Angela Merkel, davanti alle piramidi, e in Aprile è stato accolto entusiasticamente alla Casa Bianca dal Presidente Trump. Il 14 Agosto, il governo italiano ha annunciato l’intenzione di rimandare il proprio ambasciatore al Cairo. Il giacimento di gas naturale, Zohr, può cominciare la produzione a dicembre.

                      A Fiumicello, Regeni riposa sotto una fila di cipressi. Fiori, candele, volumi di Spinoza e Hesse ricoperti di plastica sono accumulati sulla sua tomba, ed una piccola foto lo raffigura mentre parla ad una folla, tenendo un microfono, il suo viso aperto ed onesto. Al contrario delle altre tombe che la circondano, la tomba di Regeni è una semplice lastra di marmo. Perché l’indagine è ancora aperta, il prete della parrocchia spiegava, i funzionari potrebbero avere ancora bisogno di riesumare i suoi resti.

                      Quest’articolo è stato tradotto dall’inglese da Lauren Cater Di Martino.

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